Che cos’è l’Ikigai? Non esiste una traduzione vera e propria per questa parola giapponese, ma il suo significato letterale può essere inteso come il “senso della vita” o “ragione per cui vale la pena esistere”. In altre parole l’ikigai rappresenta il motivo per cui ci alziamo ogni mattina con entusiasmo.

L’ikigai è considerato come uno dei predittori di una vita lunga, attiva e sana, infatti molte ricerche hanno dimostrato che le persone dotate di un forte ikigai presentano un’aspettativa di vita superiore rispetto a chi non ha ancora trovato il proprio senso della vita.
Questo è il motivo per cui nel villaggio giapponese di Ogimi, nel nord dell’isola di Okinawa, le persone presentano l’aspettativa di vita più alta del mondo. In particolare, secondo l’ultimo censimento, 15 dei 3.000 abitanti del villaggio di Ogimi sono centenari e centosettantuno sono ultranovantenni. Okinawa è chiamata l’isola dei centenari proprio perchè non è insolito vedere per le strade gente molto anziana girare in bicicletta, ballare, coltivare l’orto e godersi la vita.

Secondo la cultura giapponese, ognuno di noi possiede un ikigai. Ci vuole tempo per trovarlo, non è sempre facile, ma quando lo si trova, ogni giornata diventa ricca di soddisfazione e felicità. È come se fosse un tesoro nascosto dentro di noi e per cercarlo abbiamo bisogno di una mappa che ci indichi la strada.
In particolare, per trovare il proprio ikigai bisogna riflettere su quattro principali aree tematiche:

  1. Ciò che amiamo fare
  2. Ciò in cui siamo bravi
  3. Ciò di cui il mondo ha bisogno
  4. Ciò per cui possiamo essere pagati

Intersecando queste quattro aree troviamo il nostro personale ikigai, che ci guiderà come una bussola verso le cose che ci donano più entusiasmo, motivazione e rispecchino i nostri valori più profondi.
Lo scopo di questa ricerca è quello di arrivare alla conoscenza di sé, alla scoperta di ciò che dà senso e realizzazione alla propria quotidianità così da sentire di condurre un’esistenza piena, soddisfacente e degna di essere vissuta.

ikigai

 

Per capire meglio cosa intendiamo, facciamo un esempio concreto di ikigai: la musica per un pianista.

  • Un pianista quando suona fa una cosa che ama
  • Essendo portato per la musica sarà molto bravo o comunque dedicherà molto tempo alle prove per migliorare sempre di più
  • Quando si esibisce in un concerto, il pianista fa una cosa utile per il resto del mondo, perché gli spettatori in sala apprezzeranno la sua musica lasciandosi trasportare dall’intensità del momento
  • Infine, viene pagato per la sua performance.

Ikigai e Flow

Il concetto di Ikigai è strettamente connesso a quello di Flow.
Trovare il proprio ikigai, cioè trovare il punto di incontro tra ciò che ami, ciò che sai fare bene, ciò che serve al mondo e ciò per cui potresti farti pagare, è la ricetta perfetta per trovare le attività che ci facciano entrare nello stato di Flow. In altre parole il flow è il modo in cui mettiamo in azione il nostro ikigai.

Riprendendo l’esempio del pianista, per lui suonare il pianoforte sarà un’attività piacevole, sfidante e coinvolgente. Suonando si farà trasportare dalla musica, sarà completamente assorbito da quell’attività, sarà così concentrato da non accorgersi delle distrazioni intorno a lui. Il suo ikigai lo porterà a raggiungere lo stato di Flow.
Trovare il nostro ikigai vuol dire passare la maggior parte del nostro tempo nello stato di Flow ottenendo moltissimi benefici:

  • La nostra attenzione sarà focalizzata solo sul compito che stiamo svolgendo, raggiungendo alti livelli di concentrazione
  • Saremo nel qui ed ora, non proveremo nessuna preoccupazione per il futuro o tristezza per il passato
  • Non saremo distratti da ciò che capita attorno a noi (notifiche, social, rumori…)
  • Il tempo passerà velocemente perché ci staremo divertendo. Non guarderemo l’orologio ogni due minuti per vedere quanto tempo manca alla fine della giornata perché ci stiamo annoiando
  • Avremo il controllo di quello che stiamo facendo, ci sentiremo padroni delle nostre azioni in ogni istante
  • Mente e corpo lavoreranno in perfetta armonia, quello che pensiamo di fare riusciremo a farlo. Ogni dubbio, preoccupazione o paura di non essere all’altezza sparirà
  • Saremo soddisfatti, motivati e felici durate tutta la giornata

 

Trovare la propria “ragion d’essere” può dimostrarsi un viaggio lungo e impegnativo, ma ne vale la pena poiché permette di capire come rendere ogni giorno ricco di senso e di felicità.
I percorsi di CapoLeader sono pensati per guidare le persone alla scoperta delle attività che conducano allo stato di Flow e che permettano di innamorarsi dell’attività stessa e non solo del risultato finale.

 

Sara Cascio

 

In un articolo di Forbes, Alessandro Zollo, amministratore delegato di Great Place to Work Italia, azienda di consulenza e leader nell’analisi del clima aziendale, spiega cosa voglia dire essere leader al giorno d’oggi: “Essere leader significa essere una fonte d’ispirazione e, soprattutto, un grande ascoltatore […] Emerge la figura del leader gentile, ovvero colui che motiva i propri collaboratori, invitandoli a dare il meglio”.
La leadership gentile è uno stile manageriale fondato sul valore della gentilezza e dell’ascolto attivo, capace di creare relazioni efficaci attraverso atteggiamenti di fiducia reciproca, sensibilità ed empatia. Al giorno d’oggi è il modello di leadership più efficace in azienda perché è l’unico in grado di valorizzare le persone migliorando il benessere lavorativo.

In un articolo del Sole 24 Ore viene evidenziato come gli stili di leadership evolvano di pari passo con i cambiamenti dei modelli organizzativi.
Ad esempio negli anni ‘60 la funzione del leader era quella di pianificare e controllare, poiché la necessità del momento era quella di aumentare il profitto. Le persone lavoravano essenzialmente per ricevere un salario e il loro valore veniva attribuito in quanto fattore produttivo.
Negli anni ‘90 nasce la “leadership collaborativa”, caratterizzata da stili di relazione orizzontali e improntati al networking per far fronte al passaggio da un approccio gerarchico ad un approccio focalizzato sulla collaborazione fra soggetti adulti.
Da quel momento in avanti l’evoluzione dello stile di leadership prevalente nelle aziende di successo ha avuto un andamento lineare fino ad arrivare a parlare, ai nostri giorni, di leadership gentile.

Quali sono le 10 skill imprescindibili per un leader gentile?

  1. Ascolto attivo: un buon leader deve dare importanza alle opinioni di tutti coloro che compongono l’azienda.
  2. Motivational speaking: è importante che sappia motivare i collaboratori ispirando positività e fiducia
  3. Empatia: necessaria per comprendere le esigenze dell’azienda e dei colleghi
  4. Interpersonal skill: ovvero la gentilezza per sviluppare buone relazioni in ufficio.
  5. Gestione dei conflitti: saper gestire e valutare le cause dei conflitti favorisce uno scambio di opinioni più efficace
  6. Leadership collettiva: un buon leader deve far sentire importanti i propri collaboratori, rendendoli un punto di riferimento per attività aziendali di rilievo, ad esempio delegando compiti e attività specifiche
  7. Comunicazione efficace: deve essere in grado di comunicare in maniera efficace e chiara con i suoi collaboratori e clienti.
  8. Time management: è la capacità di saper gestire e organizzare il lavoro rispettando le scadenze previste
  9. Feedback: i giudizi altrui sono fondamentali per aiutare le persone che ci circondano a migliorare sia dal punto di vista professionale che personale
  10. Flessibilità: un buon leader deve sapere adattarsi alle diverse situazioni lavorative e trovare soluzioni ad eventuali problemi di percorso.

Qualcuno potrebbe pensare che una leadership basata sulla gentilezza si discosti troppo dall’ideale collettivo di imprenditore di successo e che la gentilezza sia un sintomo di debolezza in un mondo lavorativo basato sulla spietatezza e competitività. Nella ricerca condotta da InfoJobs è stato dimostrato che il 65% degli intervistati considera la gentilezza sul lavoro un punto di forza, per il 20% circa è addirittura un elemento imprescindibile. In netta minoranza chi ne evidenzia gli aspetti negativi identificando la gentilezza come illusione (6,2%), debolezza (1,5%) o una tattica per trarne vantaggi (7,4%). La gentilezza non è un segnale di debolezza, ma esattamente il contrario, per comprenderlo meglio pensiamo ad una metafora tratta dalla natura. Guido Stratta, nel suo libro Ri-evoluzione. Il potere della leadership gentile, prende come esempio l’acacia.

“L’acacia è una pianta che, quando nasce, sembra un cactus: un piccolo filamento di tronco pieno di spine. Ce le ha perché è debole: quando è così snella, sarebbe divorata dai ruminanti. Poi, questa pianta cresce, mette un tronco nodoso, diventa molto accogliente, e non ha più una spina. Ecco, questa è una metafora dell’animo umano: gli animi deboli, critici curano le proprie debolezze e paure con l’aggressività verso gli altri; la persona molto forte, molto capace, molto realizzata, invece, è assolutamente garbata verso gli altri. La debolezza interiore si trasforma in aggressività, la forza interiore in gentilezza.”

Possiamo riassumere dicendo che la leadership gentile si poggia sui tre pilastri:

  1. Ascoltare chi ci circonda, facendogli le domande giuste e dedicandogli il tempo necessario;
  2. Accogliere le persone creando rapporti basati sulla fiducia e ambienti in cui ciascuno si senta libero di condividere pensieri, emozioni e paure;
  3. Accompagnare le proprie persone in un percorso di crescita, sostenendole, aiutandole ad imparare dai propri errori ed incoraggiandole ad uscire dalla propria zona di comfort.

 

La leadership gentile e il Flowflow e leadership gentile

I tre pilastri della leadership gentile possono essere allenati e sviluppati applicando i principi della Teoria del Flow. Secondo il Prof. Csikszentmihalyi un buon leader è colui che riesce a creare un ambiente lavorativo in cui le persone stiano bene, si divertano lavorando e raggiungano risultati ambiziosi.

Il leader gentile è la persona più appropriata per accompagnare le persone nel percorso emotivo verso lo stato di Flow. Come possiamo vedere dal grafico delle emozioni, il Flow si trova in alto a destra, all’opposto dell’apatia. Per raggiungere questa situazione ottimale un buon leader dovrà aiutare le persone a bilanciare alti livelli di sfida del proprio compito con alti livelli delle proprie competenze. Se il livello di sfida rimane alto, ma le capacità del lavoratore sono più basse, potrà sperimentare uno stato di eccitazione (arousal), per poi passare ad uno stato di ansia e di preoccupazione, man mano che il livello di competenze diminuisce, fino a raggiungere l’apatia. Se al contrario le competenze delle persone rimangono alte, ma quello che diminuisce è il livello di sfida del compito, il lavoratore passerà da uno stato di controllo della situazione, ad uno stato di noia, fino ad arrivare al rilassamento e all’apatia.
Il ruolo del leader gentile, quindi, è quello di ascoltare attivamente le proprie persone, accogliere le emozioni che provano, senza giudicare e accompagnarle in un percorso di crescita verso lo stato di Flow, dosando sfida e apprendimento, dando un senso e un significato a quello che fanno e aiutandole ad uscire dalla propria zona di comfort e allargarla sempre di più.

La leadership che promuove il Flow ha come obiettivo principale quello di creare un clima di benessere in cui ogni persona svolga un’attività che gli piace e che l’appassioni.
I percorsi di CapoLeader sono pensati per aiutare i leader a comprendere come applicare nel loro contesto la Teoria del Flow, aiutando le proprie persone a crescere, stare bene e raggiungere obiettivi di performance elevati.

 

Sara Cascio

Il feedback in azienda è un importante strumento di crescita, ma il suo valore spesso non viene percepito.
Quando parliamo di feedback, durante i nostri percorsi formativi in azienda, capita con molta frequenza di ricevere risposte come queste:

“Non ricevo mai feedback”

“Riesco a dare feedback ai miei collaboratori, ma non al mio capo”

“Da noi non si usa, non siamo abituati”

“Mi dicono bravo, ma senza andare nel dettaglio”

Queste frasi indicano che probabilmente nell’organizzazione non è presente una buona cultura del feedback, oppure non è ancora stata sviluppata efficacemente.
La principale conseguenza è quella di considerare il feedback come:

  • negativo,
  • una critica,
  • qualcosa che rovinerà il rapporto con i colleghi,
  • qualcosa di difficile da gestire dal punto di vista emotivo.

 

In realtà non è niente di questo. Quando parliamo di feedback ci riferiamo ad uno strumento di crescita di grandissimo valore, utilizzato per fornire spunti utili al perfezionamento della performance.
Il feedback ci aiuta a capire cosa possiamo migliorare nelle nostre prestazioni, e come possiamo farlo.
Ovviamente deve essere dato in un setting adatto e seguendo delle indicazioni che lo rendano efficace.

Se pensiamo al contesto sportivo, possiamo capire quanto sia importante il feedback per un atleta.
Alla fine di una prestazione sarà fondamentale per lui ricevere diverse tipologie di feedback:

  1. Feedback dall’allenatore: per un atleta è importantissimo ricevere un commento da parte del suo preparatore dopo ogni performance. È ciò che gli permette di correggere i dettagli, migliorando movimenti e tecniche.
  2. Feedback dal proprio corpo: ascoltare come sta il proprio corpo serve per capire i propri limiti. Questo ci permette di capire cosa rinforzare in allenamento per evitare rischi o infortuni.
  3. Feedback dal pubblico: ricevere un feedback da parte dei sostenitori è utile per aumentare il senso di autoefficacia dell’atleta.
  4. Feedback dal punteggio: le prestazioni sportive sono spesso misurabili in termini numerici, per un atleta sarà essenziale conoscere i propri punteggi per poterli superare nelle competizioni successive.

Ogni atleta è interessato a ricevere questi feedback, poiché gli permetteranno di crescere e migliorare.
Così come nel contesto sportivo, anche in quello aziendale esistono diverse tipologie di feedback che possono aiutare le persone a capire se stanno percorrendo la giusta strada verso i loro obiettivi:

  1. Feedback da altre persone: un buon leader segue i propri collaboratori durante tutto il percorso individuando dei momenti da dedicare al confronto e alla restituzione di indicazioni utili per lo svolgimento dell’attività. Dare dei feedback immediati e specifici è un’ottima strategia che, però, non deve sfociare in micro-management.
  2. Feedback generato dal lavoro stesso: alcune attività hanno in sé le misure delle prestazioni (es: numero di unità vendute). Una quantificazione del lavoro svolto può dare dei criteri utili per valutare i propri sforzi.
  3. Feedback generato dai propri criteri personali: nel giudicare se un lavoro è ben fatto, un vero leader si basa più sulla propria percezione soggettiva che sui segnali esterni. Questa percezione istintiva deriva dall’esperienza e può essere trasmessa, con il tempo, alle proprie persone.

La buona notizia è che, se nella propria azienda non vengono dati feedback, possiamo dare inizio noi al cambiamento culturale che, con il tempo diventerà sistematico. Possiamo assumere il ruolo di promotori del cambiamento, chiedendo per primi il feedback se non ci viene dato, o dandolo con costanza ai propri collaboratori.

Spesso partiamo dal presupposto che se nell’azienda “si è sempre fatto così” vuol dire che probabilmente quella modalità d’azione sia la più corretta. Questo non è vero. Conoscere la situazione dell’azienda, la sua cultura, il suo clima e le sue tradizioni è fondamentale per poter capire che cosa migliorare.
Ognuno di noi è un attore e non uno spettatore passivo della vita aziendale.
Ognuno di noi può dare inizio ad un piccolo cambiamento che con il tempo modificherà la cultura aziendale.

Il feedback non è solo uno strumento di crescita, ma rappresenta uno dei presupposti essenziali per poter portare il Flow in azienda. Se ogni persona lavorasse nello stato di Flow, secondo il Prof.  Csíkszentmihályi, riuscirebbe a raggiungere le sue massime prestazioni lavorative, portando grandi vantaggi all’azienda in termini di qualità e quantità.
I percorsi di CapoLeader aiutano le persone a lavorare sugli elementi essenziali per raggiungere il Flow.

 

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Ci troviamo nel periodo delle Grandi Dimissioni, o Great Resignation, in cui il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Molte persone hanno deciso di lasciare il proprio posto di lavoro perché non rispecchia più i propri valori, non si sentono più motivati e di conseguenza non sono felici. Come facciamo a capire se le persone sono demotivate al lavoro?

Il ruolo degli HR è fondamentale in questi casi, perché si trovano nella posizione privilegiata di poter aiutare le persone a capire cosa manca e cosa modificare per ritrovare la motivazione e la soddisfazione persa con il tempo.

Quali sono le domande che ogni HR dovrebbe farsi per valutare la situazione e intercettare i sintomi che facciano capire che le persone sono demotivate?

  • La persona ha obiettivi chiari?

È fondamentale per ogni lavoratore avere chiara la direzione da prendere. Questo non vuol solo dire sapere quale sia la meta, ma anche quali strumenti utilizzare durante il percorso.

Una persona che non sente di aver chiaro il proprio obiettivo lavorativo risulterà demotivata e sarà più incline a diventare inefficace e poco produttiva.

  • Le sue abilità sono bilanciate al livello di sfida del compito?

Quando viene assegnato un compito è importante capire se le competenze della persona siano superiori, inferiori o in equilibrio con il livello di difficoltà. Se il lavoratore avrà competenze superiori al livello di sfida percepita probabilmente si annoierà e quindi non troverà soddisfazione in quello che fa. Al contrario, se la sfida è superiore alle sue abilità proverà uno stato di ansia e di stress. Quando c’è equilibrio tra abilità e difficoltà la persona entrerà in Flow, sarà quindi piacevolmente assorto in quello che sta facendo e la sua motivazione e soddisfazione lavorativa aumenteranno.

  • Riceve feedback adeguati?

Il feedback è uno strumento prezioso per capire se si sta andando nella giusta direzione. Per essere efficace deve essere dato subito dopo aver svolto un compito e deve essere molto specifico. Se le persone non ricevono un feedback rischiano di allontanarsi dalla meta desiderata senza accorgersene. È importante anche dare feedback di apprezzamento, per riconoscere l’impegno e celebrare un successo al fine di creare un buon clima lavorativo.

  • Ci sono troppe distrazioni?

Il principale ostacolo per entrare in Flow riguarda le distrazioni. Assicurarsi che le persone lavorino in ambienti tranquilli in cui non ci siano troppi rumori e continue interruzioni può facilitare la concentrazione. Se la mia attenzione viene continuamente dirottata verso elementi di disturbo come le mail e le notifiche del cellulare sarà difficile mantenere alta la concentrazione. Silenziare lo smartphone o programmare un orario per rispondere a tutte le mail può essere una semplice soluzione per rimanere focalizzati sul compito.

  • Lavora in multitasking?

Il multitasking non esiste! Se la persona svolge più compiti contemporaneamente vuole semplicemente dire che il suo cervello passerà continuamente da un compito all’altro a ritmi sostenuti, in questo modo la qualità del lavoro sarà inferiore perché non si riuscirà ad entrare nel flow, si impiegherà più tempo per terminare i compiti e la persona, alla fine, sarà molto più stanca e demotivata.

Se la persona non si identifica nel suo lavoro o se i suoi valori non sono gli stessi dell’azienda, difficilmente riuscirà ad essere motivata. Trovare un senso, uno scopo più grande al proprio lavoro è importante per entrare in Flow. Ognuno di noi lavora molto meglio quando sa che quello che sta facendo è utile e farà la differenza nel mondo. Il senso di significato che attribuiamo al nostro lavoro è uno dei presupposti per provare grande coinvolgimento, benessere e alta produttività nella propria attività.

 

Queste semplici domande possono aiutare, chi gestisce le persone dell’azienda, a capire se ci sono degli ostacoli al benessere lavorativo. Il passo successivo sarà quello costruire percorsi di sviluppo in grado di restituire motivazione e coinvolgimento ai lavoratori. Inserire nel piano formativo annuale iniziative legate al Flow e alla gamification aiuta i dipendenti a sviluppare un approccio basato sul connubio di apprendimento e divertimento.

Noi di CapoLeader proponiamo la soluzione che permette di approfondire gli interrogativi generati dalle precedenti domande e capire quando le persone sono demotivate. Ogni partecipante imparerà a lavorare su obiettivi chiari, bilanciamento abilità sfida, feedback, attenzione focalizzata e senso di significato. Come?

Attraverso un simulatore di leadership, Fligby, ogni persona diventa Direttore Generale di un’azienda e si allena a gestire un team di 7 persone sfiduciate e poco motivate, aiutandole a ritrovare la motivazione, la soddisfazione lavorativa e il Flow. Ogni persona può mettersi alla prova, testare le proprie emozioni, fare scelte diverse e vedere come reagiscono i propri collaboratori virtuali.

Il vantaggio di un simulatore di leadership è quello di poter sperimentare situazioni reali senza fare danni, perché ci troviamo in un contesto sicuro dove dall’errore si può imparare. I partecipanti potranno capire se le proprie persone sono demotivate e avranno strategie pronte per accompagnarle verso il pieno coinvolgimento e soddisfazione.

 

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L’obiettivo di un’azienda dovrebbe essere quello di far lavorare insieme un gruppo di persone per realizzare un obiettivo comune. Realizzare questo intento è possibile anche attraverso lo schiavismo e la corruzione ma trovare delle modalità più etiche e che permettano ai collaboratori di dare significato al lavoro permette di creare ambienti lavorativi dove le persone possano realizzarsi pienamente.

Non dovrebbe essere difficile spingere le persone a lavorare, il corpo umano è costruito proprio per questo scopo. Un individuo funziona al meglio quando è profondamente coinvolto in un compito e realizzare un lavoro ben fatto ci lascia una sensazione piacevole di benessere e soddisfazione. Dato questo assunto risulta interessante riflettere sul fatto che molti lavoratori considerano il proprio lavoro un sacrificio, un prezzo da pagare per vivere e aspettano ansiosamente i momenti in cui, terminato l’orario lavorativo possono dedicarsi a ciò che veramente amano. La risposta che viene spontanea è che seppure l’uomo sia progettato per lavorare, la maggior parte dei posti di lavoro non sono progettati per mettere i dipendenti nelle condizioni per esprimersi al meglio ma semplicemente per ottenere da loro il massimo risultato. Difficilmente un lavoratore riuscirà a dare significato al proprio lavoro se percepisce di essere considerato al pari di un macchinario o di uno strumento di produzione.

Che cos’è il senso di significato?

Normalmente si intende con questa locuzione la sensazione del lavoratore che quello che sta accadendo e quello che sta contribuendo a far accadere conti davvero, insomma l’idea che il proprio comportamento sia in grado di fare la differenza per sé stesso e per gli altri. Il senso di significato così descritto è presupposto per provare grande coinvolgimento, sensazione di benessere e alta produttività nella propria attività. Caratteristiche queste che si identificano nello stato di Flow come descritto dal prof. Csikszentmihalyi. Proprio partendo dagli elementi che caratterizzano il Flow si possono individuare 3 macro aree di attivatori della prestazione ottimale:

  • Chiarezza degli obiettivi. In questa area si riconoscono elementi come la chiarezza del ruolo, la comprensione e l’allineamento con gli obiettivi aziendali, l’accesso alle conoscenze e alle risorse necessarie per portare a termine il lavoro. Questi sono definibili come elementi razionali dell’esperienza di Flow e per semplificare l’analisi possiamo definirli legati al QI (quoziente intellettivo). Quando il QI di un ambiente lavorativo è basso l’energia dei lavoratori è indirizzata in modo errato e spesso va in conflitto con quella dei colleghi.
  • Feedback, comunicazione e relazioni sociali. Questa area fa riferimento alla qualità delle interazioni tra le persone coinvolte e troviamo elementi come la fiducia, il rispetto, il conflitto costruttivo, l’umorismo e la capacità di collaborare in modo efficace. Questi aspetti caratterizzano la sicurezza emozionale e sono riconducibili al famoso QE (quoziente emotivo come descritto da Goleman). Quando l’QE di un posto di lavoro è scarso, l’energia dei lavoratori si disperde sotto forma di approcci “ politici” al proprio ruolo o alla gestione del proprio Ego o all’evitamento passivo-aggressivo di tematiche “difficili”.
  • La sfida, il senso di controllo e l’automotivazione. Questa area si riferisce molto al livello di coinvolgimento e di autorealizzazione del personale. In pratica la sensazione di essere parte di qualcosa di importante e ricco di significato che va al di là del semplice ruolo. Questa terza categoria è descritta dal QM (quoziente di significato – in inglese meaning). Quando il QM dei un ambiente lavorativo è basso, i dipendenti mettono meno energia nel loro lavoro e lo vedono come “solo un lavoro” che dà loro poco più di uno stipendio.

 

Ci sono studi che evidenziano che ambienti con QI, QE e QM alti siano cinque volte più produttivi rispetto alla media. Proprio interventi sull’ultimo di questi indicatori sembrerebbero più sensibile a livello di prestazioni. Secondo lo stesso studio, i manager intervistati riconoscono il vero collo di bottiglia all’aumento della produttività: l’incapacità di migliorare il QM del loro ambiente lavorativo.

L’interrogativo viene spontaneo, com’è possibile aumentare il senso di significato percepito dai lavoratori?

In prima battuta la risposta a questa domanda sta nel saper innovare lo storytelling della propria azienda. Normalmente questo si occupa di raccontare quello che l’organizzazione può fare e migliorare al proprio interno (più produttività, più risultati, più efficienza). E’ necessaria un evoluzione netta e rivolgersi verso elementi esterni:

  • La società, ad esempio, creare una società migliore, costruire la comunità o gestire le risorse
  • Il cliente, ad esempio semplificando la vita e fornendo un servizio o un prodotto di qualità superiore
  • il team di lavoro, ad esempio un senso di appartenenza, un ambiente premuroso o lavorare insieme in modo efficace
  • il singolo lavoratore: esempi includono lo sviluppo personale, uno stipendio o un bonus più alto e un senso di responsabilizzazione

Per rendere più elevato il QM è necessario raccontare una storia che include questi 5 elementi perché proprio da un giusto mix di questi si riescono a toccare tutte le corde motivazionali delle persone.

Immaginiamo si voglia far partire un percorso di cambiamento culturale. La resistenza al cambiamento potrebbe proprio provenire da un basso QM, i dipendenti non riescono a percepire il significato del cambiamento. Le strategie più comuni per vincere questa resistenza fanno spesso riferimento a i vantaggi che trarrebbe l’azienda nel suo complesso (più utili, più volumi, immagine migliore). Per innalzare il QM sarebbe più utile prospettare uno scenario che tocchi anche l’impatto sociale  (si veda per esempio il caso Patagonia trattato qualche settimana fa), sui clienti (maggiore semplicità, meno errori più efficienza, prezzi più competitivi), sul team di lavoro (meno lavoro ridondante, più responsabilizzazione, più snellezza organizzativa), sugli individui (lavori più attraenti e sfidanti, possibilità di carriera, compensi più elevati) che questo cambiamento potrebbe generare.

I leader che vogliono migliorare il QM del proprio ambiente dovranno pertanto dimostrare alte capacità di storytelling e di creazione di una visione estesa dello scenario nel quale l’azienda stessa opera. In questo modo per i lavoratori sarà molto più semplice dare significato al lavoro.