La pandemia ci ha obbligati a fare un passo avanti nel mondo del lavoro che fino a poco prima era ancora sconosciuto: il lavoro ibrido.
Il lavoro ibrido è una modalità di lavoro che unisce il lavoro in presenza e il lavoro a distanza.

Ad oggi non ci sono regole specifiche che lo regolino. Ci sono aziende che si stanno orientando verso una modalità “remote-first”, adottando il lavoro da remoto come predominante e una presenza in ufficio occasionale. Altre aziende, invece, preferiscono un approccio “office-first”, in cui l’ufficio rimane il luogo principale dove svolgere l’attività.

I vantaggi del lavoro ibrido

Molte persone stanno richiedendo di lavorare in modo ibrido perchè in questo modo possono lavorare scegliendo il luogo più adatto, senza doversi recare fisicamente ogni giorno in ufficio.
Con questa alternanza le persone sono libere di gestire il loro tempo e le loro vite migliorando notevolmente l’equilibrio lavoro-vita privata.

Quando i dipendenti ottengono la flessibilità che cercano, i datori ne hanno vantaggi in termini di aumento della produttività, dell’impegno e della lealtà. Questo porta ad una riduzione dell’assenteismo e ad una riduzione dei costi per gli spazi fisici.
Anche l’ambiente ne risente in modo positivo, grazie al lavoro ibrido le emissioni di CO2 e il traffico stradale diminuiscono. Questo comporta anche un migliore utilizzo dei trasporti pubblici.

Le sfide del lavoro ibrido

Secondo l’articolo di Mark Mortensen e Martine Haas, pubblicato sull’Harvard Business Review, chi lavora da remoto, se non correttamente supportato, rischia di rimanere ai margini dell’organizzazione.

Questi dipendenti, spesso vengono penalizzati da un’infrastruttura tecnologica peggiore (connessioni lente, incapacità di accedere a determinate risorse da casa, una configurazione di un home office meno sofisticata) riscontrando più difficoltà nel dimostrare la propria competenza. Ma non si deve fare i conti solo con un gap tecnologico.
Non essere presenti durante le interazioni informali lascia i lavoratori da remoto fuori da alcune dinamiche, mettendoli anche nella condizione di diventare gli ultimi a essere messi al corrente dei fatti.

Lavorare da remoto può anche portare i dipendenti a sentirsi più isolati e privi di quelle relazioni e connessioni che forniscono un supporto sociale.
Mark Mortensen e Martine Haas spiegano che i leader riconoscono sforzi e azioni dei propri collaboratori e le azioni in modo maggiore quando si lavora nello stesso spazio del capo.
La probabilità che le azioni del collaboratore siano viste e segnalate al capo è maggiore quando si lavora in ufficio e non da remoto. Impegnarsi duramente al raggiungimento degli obiettivi assegnati, anche al di fuori dell’orario lavorativo classico (di notte, di mattina presto ecc..), non è facilmente visibile come poteva esserlo in precedenza.
In questi casi spesso il merito per un lavoro di gruppo viene attribuito principalmente a chi è presente in ufficio e più visibile, generando disparità di trattamento e frustrazione tra i membri del team.

I nuovi Leader

Più andiamo avanti e meno torneremo alle modalità di lavoro considerate “normali” fino a qualche anno fa.

Per far fronte alle nuove sfide serve formare dei nuovi leader. Queste persone devono essere in grado di sviluppare e implementare una nuova visione e utilizzare nuovi strumenti per coordinare e supportare ogni membro della squadra.
I nuovi Leader dovranno avere alti livelli di intelligenza emotiva e di resilienza per gestire team ibridi che presentano esigenze, obiettivi, modalità di lavoro e situazioni personali molto variegate.
Dovranno assicurarsi che i dipendenti che lavorano da remoto non si sentano esclusi, creando un ambiente stimolante in cui regni la fiducia.

Per formare i nuovi leader serviranno sempre di più dei programmi di sviluppo innovativi e coinvolgenti, come Fligby, basati sulla simulazione e sulla gamification manageriale. Grazie ad un’adeguata formazione i leader svilupperanno le skills necessarie per affrontare la nuova realtà ibrida, creando ambienti di lavoro coinvolgenti. Aumentando l’engagement aumenterà anche il livello di produzione aziendale.

Molti di noi pensano genuinamente che avere più soldi ci renderà più felici; altri si sentono altrettanto sicuri che il denaro non possa comprare la felicità. Quindi cos’è giusto? Nonostante molti filosofi, economisti e psicologi si siano fatti la domanda nel corso delle generazioni, non c’è una risposta definitiva. Come al solito in tema di felicità la risposta sembra essere: dipende.

Andiamo un po’ più in profondità sui fattori che complicano la relazione tra denaro e felicità e analizziamo varie ricerche scientifiche compiute negli anni per trovare qualche risposta. Concentriamoci in primis sul fatto di avere o guadagnare denaro, prima di pensare alle scelte per spenderlo.

Avere del denaro può rendermi felice?

La semplice risposta a questa domanda è si. Avere del denaro può renderti felice. Comunque, solamente fino ad un certo punto, e questa felicità dipende dal modo in cui ne sei venuto in possesso.

Molti studi hanno analizzato e provato a quantificare l’effetto del reddito sulla tua felicità. Certamente, il tuo reddito ha effetto a moltissimi elementi, come le dimensioni della tua casa, il modo in cui l’hai arredata, e forse il luogo nel quale vivi. L’esperto di wellbeing Gethin Nadin afferma “Il denaro contribuisce alla felicità quando ci aiuta a soddisfare i bisogni primari, ma la ricerca ci dice che oltre un certo livello più soldi non generano più felicità”.

La professoressa di psicologia Sonja Lyubomirsky, dell’Università della California voleva quantificare il reddito necessario per essere felici. Ha chiesto a persone che avevano un reddito annuo pari a 30.000 usd quanto necessitassero per essere felici. La risposta fu 50.000 usd. Quando lo ha chiesto a persone che guadagnavano 100.000 usd questi hanno stimato essere 250.000 usd. I suoi studi hanno dimostrato che non era importante quanto le persone guadagnassero, queste pensavano sempre ne servisse un po’ di più per essere veramente felici.

Spesso viene citato uno studio di Princeton del 2010 che suggerisce che la felicità è collegata al reddito, ma solo fino ad un certo livello. Felicità e reddito salgono insieme fino alla soglia di 75.000 usd. Dopo questo importo, sembra che incrementi di reddito portino degli incrementi lievi di felicità. Questo stesso studio dimostra che questi incrementi di reddito fino ai 75.000 usd riducono altresì l’impatto di circostanze negative. Ad esempio, gli individui che guadagnano di più sono meno portati a percepire tristezza, anche se devono affrontare un divorzio o convivere con una severa asma.

All’interno di questo studio non vengono però presi in considerazione i milionari e il denaro ereditato. Queste categorie vengono analizzate da uno studio del 2017. Questo ha trovato che esistono differenze nell’ambito della felicità tra coloro che possiedono patrimoni da 1-3 milioni di dollari rispetto a quelli con fortune da 10 o più milioni. Questi ultimi sembrano decisamente più felici dei loro cugini un po’ più poveri. Lo stesso studio trova evidenza che chi si è costruito la propria ricchezza è decisamente più felice di chi è nato nel lusso e nell’abbondanza. Andrew Carnage sembra avesse ragione quando affermò che “ricchezze enormi minano i talenti e le energie di un bambino, portandolo a vivere una vita meno ricca di significato e meno degna rispetto a quelle di persone meno ricche alla nascita”.

L’effetto lotteria

il denaro e la felicità

Un’ulteriore area di studio tra i ricercatori della felicità è il caso di chi ha vinto del denaro. Ci sono diversi studi su questo argomento e mostrano la relazione tra il denaro e altre variabili come la classe socio-economica, la posizione geografica e varie altre. Questo perché esistono numerosi gruppi di controllo dei dati, rappresentati da chi non ha vinto la lotteria. In linea di massima sembra che la felicità non sia un granché aumentata per chi ha vinto discrete o ingenti somme di denaro.

Uno studio del 1978 su 22 vincitori della lotteria con un premio medio di 480.000 usd ha dimostrato livelli di felicità non dissimili da quelli dei gruppi di controllo. Infatti, gli individui che hanno vinto dei soldi hanno segnalato che le attività ordinarie come vedere la TV e socializzare con gli amici non gli generavano più felicità di quella dei gruppi di controllo. Un ulteriore studio del 2007 ha altresì dimostrato che le persone che hanno vinto dai 200.000 usd in su hanno sperimentato livelli di stress significativamente più alti nei successivi due anni.

Nel 2018 uno studio di Grant E. Donnelly ha concluso che delle vincite di moderati importi portano maggiore felicità ma solo per poco tempo. In definitiva questi esempi indicano che il punto non è tanto la quantità denaro che si possiede, ma le modalità in cui il denaro ti possa rendere felice e come lo si sia ottenuto.

Spendere il denaro ci rende felici?

Se il punto non è solo avere del denaro, il modo in cui lo spendiamo ha un significativo impatto sulla nostra felicità. Il detto dice che “il denaro non compra la felicità”, ma è vero?

Uno studio molto famoso di Thomas Gilovich del 2014 ha dimostrato che spendere il denaro in esperienze piuttosto che in oggetti rende più felici le persone. Gilovich ha concluso che acquistare delle esperienze ha alta possibilità di migliorare i legami sociali.

Questo probabilmente perché normalmente si condividono le esperienze con altre persone o perché si è portati a raccontare agli altri ciò che abbiamo vissuto. Le nostre esperienze inoltre vanno normalmente a impattare la nostra identità molto più che le nostre proprietà. Ad esempio, potresti essere la persona che ama andare alle partite con il tuo abbonamento o quello che è solita andare in crociera con i propri amici. Le tue vacanze in Sardegna sono state favolose ma è molto più difficile dire se sono state meglio delle vacanze a Londra del tuo collega. Invece è molto più semplice comparare la tua auto con la sua.

il denaro e la felicità

La saggezza popolare suggerisce che comprare oggetti non ci farà più felici, ma nonostante questo in molti si instaura un pensiero che va contro questo approccio. Chi non ha prima o poi pensato che un computer più prestante, un telefono nuovo o la maglietta del nostro giocatore preferito ci facesse essere più felici? Il problema è che questa felicità dura per un momento perché la nostra mente si abitua velocemente agli oggetti che possediamo. Questo implica che la nostra felicità non viene sostenuta a lungo termine dagli oggetti per i quali abbiamo speso in nostri soldi.

E’ vero però che il processo di acquisto di piccoli oggetti (ricerca, comparazione, analisi dei benefici che questo oggetto ci genererà) può generare innalzamenti del livello di felicità fino al momento dell’acquisto vero e proprio. Insomma l’aspetto piacevole sembrerebbe proprio il pensare all’acquisto, piuttosto che il possesso dell’oggetto.

Un fattore molto interessante confermato da diversi studi sembra il fatto che spendere del denaro per le altre persone porta più felicità che comprare oggetti per noi stessi. Molte persone intervistate a questo proposito dichiarano che preferiscono spendere per sé stessi, ma i risultati delle varie ricerche sembrano non confermare questo approccio. In una di queste analisi Elizabeth Dunn dell’Università della British Columbia ha fornito dei soldi ai partecipanti che facevano parte di due gruppi. Il primo doveva spenderli per sé stesso, il secondo per altre persone.

Dunn ha scoperto che il secondo gruppo aveva un incremento della felicità decisamente più consistente e anche più duraturo. Questo perché spendere per gli altri è un’attività sociale e ci fa acquisire una migliore opinione di noi stessi (anche quando il regalo è forzato da uno scienziato).

Spendere denaro per il tempo

La sola cosa che penso sia veramente meravigliosa del denaro è il fatto di poter comprare il tempo. Nel passato quando lavoravo lontano da casa ero solito calcolare il tempo necessario per rientrare e poter giocare con i miei figli. Questo tempo era altamente prezioso e per poterlo comprare ho scelto mezzi di trasporto spesso non convenienti, ma che mi hanno permesso di spendere più tempo con i ragazzi. La buona notizia è che tutti gli studi dicono che spendere denaro per il tempo ci rende più felici. Ci sono diversi modi per comprare il tempo:

  • lavorare meno per avere più tempo da dedicare alle nostre passioni, in questo caso il prezzo è il mancato guadagno.
  • pagare qualcun altro per fare dei lavori al nostro posto (tagliare il prato, stirare, pulire casa etc)
  • acquistare oggetti o equipaggiamento che semplifica alcune attività (robot per pulire il pavimento, tagliare l’erba, lavare i vetri etc)

Secondo la psicologa Lyubomirsky se reinvestiamo il tempo in certi tipi di attività come, passare del tempo con gli amici o la famiglia, dedicarsi alla musica o ad altre attività culturali, imparare nuove abilità e facendo volontariato, andremo ad aumentare la gioia nella nostra vita.

Il denaro a lavoro

Guardando in ambito lavorativo se pensiamo ad un collaboratore che utilizza strumentazione che lo costringere a utilizzare il suo tempo inutilmente, ad esempio un Pc lento, risulta molto evidente che potremmo utilizzare il denaro per recuperare il suo tempo attraverso un investimento in un pc al passo con i tempi e generare un duplice impatto sulla sua felicità e sulle sue prestazioni.

lo stress da denaro

Concludiamo questa carrellata sugli studi che mettono in relazione il denaro e la felicità con un argomento che ha molto impatto nell’ambito organizzativo. Una recente ricerca del 2020 ha dimostrato che preoccuparsi per il denaro è uno delle più grosse cause di stress sia nell’ambito delle prestazioni lavorative, sia nell’ambito delle relazioni personali e sociali. I “preoccupati” perdono da 1 a 3 giorni all’anno nello stress andando ad impattare sulla qualità del lavoro e contaminando l’ambiente lavorativo con negatività e malcontento.

L’opinione di molti è che i datori di lavoro dovrebbero farsi carico delle situazioni finanziarie dei propri dipendenti garantendo salari adeguati e promuovendo un approccio corretto con il denaro e formazione in questo ambito. Se analizziamo il livello di fiducia nelle istituzioni finanziarie (banche , intermediari etc) e quello nei confronti del datore di lavoro, scopriamo che quest’ultimo ha una grado di autorevolezza e fiducia molto più alto.  Sembrerebbe emergere che i datori di lavoro sono nelle condizioni migliori per sostenere la cultura finanziaria dei propri collaboratori e così facendo migliorare il loro benessere mentale.

Ritieni che questo potrebbe portare anche al miglioramento delle prestazioni? Io sono convinto di si.

Ho partecipato a moltissimi corsi di formazione con modalità differenti come aule virtuali, lezioni frontali, lavori in piccoli gruppi e modalità blended. Più frequentavo questi corsi, più mi appassionavo al bellissimo mondo della formazione. Ogni corso mi ha permesso di crescere sempre di più personalmente e professionalmente. Fino ad arrivare al punto di trovarmi “dall’altro lato” di un progetto di gamification manageriale.
A luglio è arrivato il momento tanto desiderato di gestire, con due colleghi esperti, il mio primo percorso di sviluppo della Leadership Fligby, come trainer.

Il percorso Fligby, un simulatore di leadership ideato da Csikszentmihalyi, comprendeva un incontro di briefing, tre settimane di gioco individuale, un incontro di debriefing e un’ora di coaching con ciascun partecipante.
Ero molto emozionata e allo stesso tempo entusiasta di questa opportunità. Il percorso di gamification manageriale è interamente online, ma nonostante la distanza fisica delle persone si è creato da subito un bellissimo clima che ci ha fatto dimenticare di essere ognuno in una città differente.

Cosa ho imparato?

La cosa che mi ha colpito di più è stata la quantità di cose che ho potuto imparare, nonostante non fossi nel ruolo del partecipante.
Ogni condivisione, ogni racconto ed ogni esperienza che i partecipanti hanno portato è stata utile per scoprire la varietà di ciascun lavoro, per capire come problemi condivisi vengano affrontati in modo differente e come ognuno utilizzi strategie differenti per affrontare situazioni simili.

Inoltre, durante tutto il percorso ho avuto la possibilità di allenare alcune mie competenze. Per esempio l’ascolto attivo e l’empatia. Soprattutto durante gli incontri di coaching è importante creare un rapporto di fiducia, in modo tale che la persona possa parlare di sé in un ambiente non giudicante. L’empatia è fondamentale per rendere la relazione efficace. Consente di percepire le emozioni dell’altro e “collegarsi” a lui cogliendo ogni aspetto del messaggio che viene detto.

Un’altra importante skill che ho potuto potenziare è stata la gestione del tempoE’ facile perdere la cognizione del tempo lasciandosi trasportare delle condivisioni dei partecipanti, capita quando siamo in uno stato di Flow, ma è altrettanto importante rimanere nei tempi. Per questo abbiamo creato una dettagliata tabella che ci ha permesso di capire minuto per minuto se fossimo in orario o se fosse necessario proseguire. A volte abbiamo dovuto riequilibrare i tempi perché gli imprevisti sono all’ordine del giorno, soprattutto nelle formazioni digitali, ma questo ha sicuramente migliorato la mia competenza di problem solving. Tutto ciò è stato possibile grazie al lavoro di squadra con i miei colleghi. Ognuno aveva il suo ruolo e i suoi compiti e questo ha reso la formazione ancora più efficace.

Le difficoltà

Come in ogni cosa, ci sono state delle difficoltà. Prima fra tutti l’ansia di essere all’altezza della situazione, ma una volta che si inizia a parlare questa sensazione di paura svanisce, lasciando posto solo alla voglia di rifare questa esperienza.
Un aspetto complesso da affrontare riguarda la diffidenza iniziale che le persone hanno nei confronti di una formazione che prevede un gioco come strumento. Sono ancora in molti a pensare che apprendimento e divertimento non vadano d’accordo, ma questo è un errore! Giocando abbassiamo le difese, assumiamo un ruolo diverso dal solito, interagiamo con altre persone, seguiamo delle regole e ci divertiamo. Tutto questo mentre apprendiamo nuove conoscenze e abilità in modo semplice. La gamification manageriale funziona e accelera l’apprendimento.

Un altro punto complicato è relazionarsi con persone con caratteristiche molto diverse. Ci sono partecipanti pronti ad aprirsi con noi, mettersi in gioco e lavorare sulle proprie aree di miglioramento, altri, invece, sono più diffidenti e magari non hanno voglia di lavorare su di sé. Bisogna, quindi, trovare la chiave giusta per creare un luogo sicuro e non giudicante in cui poter affrontare argomenti delicati senza timore.
Ogni difficoltà rappresenta una sfida che ci permette di crescere e aumentare le nostre conoscenze e abilità.

Tornando indietro, rifarei lo stesso percorso che mi ha portato ad essere una Facilitatrice di Fligby?

Assolutamente sì!
Ho capito che questa è la strada che voglio seguire. Aiutare le persone a far emergere le loro risorse, potenziando i propri punti di forza e le proprie aree di miglioramento, sul lavoro e nella vita, è sempre stato il mio sogno fin da quando ho scelto Psicologia del Lavoro come corso Magistrale all’Università.
Il fatto di poterlo fare con una modalità innovativa e coinvolgente, ovvero con Fligby, un simulatore di leadership, unico in Italia, rende il tutto un’esperienza meravigliosa.

 

Sara Cascio

Una metodologia per stabilire il profilo delle abilità di leadership utilizzando i dati di gioco

La missione del serious game FLIGBY è identificare, misurare e aiutare a sviluppare capacità di leadership. Alla fine del gioco, FLIGBY fornisce un report individuale per ciascun giocatore sulle 29 competenze di leadership, con una gamma di opzioni di benchmark disponibili.
In FLIGBY, il report individuale di ogni giocatore è composto dai suoi punteggi su ciascuna delle 29 competenze di leadership. I profili vengono generati automaticamente alla fine della simulazione per coloro che hanno completato il gioco. La registrazione continua di ogni decisione del giocatore, così come la complessa analisi statistica dei risultati, vengono eseguite di routine dall’algoritmo automatizzato e pre-programmato incorporato nel sofisticato Master-Analytics-Profiler (MAP) di FLIGBY.

Su circa 90 delle oltre 150 decisioni che il “GM” deve prendere nel Gioco, ci sono da due a cinque scelte.
In ogni decisione, due team indipendenti di esperti FLIGBY hanno classificato le risposte dal “più appropriato” (nel qual caso il giocatore ottiene già un feedback positivo all’interno del gioco e l’algoritmo valuta positivamente alcuni elementi nel profilo delle abilità del giocatore), al “meno appropriato” (nel qual caso, e in tutti i casi intermedi, i punteggi delle abilità non cambiano).

La valutazione delle scelte

competenze di leadership

Sulle decisioni soggette al punteggio delle abilità di un giocatore, i due gruppi di esperti indipendenti hanno concordato quali sarebbero state le decisioni “migliori” (solo in pochi casi, hanno anche segnato positivamente la “seconda migliore alternativa”). Si presume che la maggior parte delle decisioni prese durante il gioco richieda (e quindi rifletta) circa 6 delle 29 abilità di leadership.

In ogni caso, quando un giocatore fa la scelta migliore, guadagna un punto per la decisione.

Per ogni particolare abilità, il numero massimo di punti che si possono guadagnare è standardizzato al 100%.
Ciò consente di determinare il punteggio percentuale di ciascun giocatore su ciascuna abilità. Questo approccio facilita il confronto del livello di abilità di un giocatore tra le 29 abilità e consente di confrontarlo con la media del gruppo di appartenenza. L’approccio consente anche di effettuare analisi comparative rispetto ad altre coorti, in tutti i settori industriali, per nazionalità, per mansioni lavorative e molti altri.

Poiché le aziende operano in diversi settori, scopi e contesti aziendali, spesso identificano competenze di gestione/leadership piuttosto specifiche. Il successo organizzativo richiede in genere una combinazione di competenze contestualmente diverse. Ciascuna di queste “miscele” può essere personalizzata dall’algoritmo di Fligby.

In molti cercano di individuare quali potranno essere i trend della leadership per il 2022, ho provato a dare un’occhiata a qualche studio e ricerca e quello che emerge è molto interessante. Il mio intento in questo articolo è provare ad immaginare le implicazioni dei dati più significativi. Partiamo proprio dai dati:

– Il 55% dei CEO dicono che sviluppare la prossima generazione di leader è la loro principale priorità

– i dipendenti non coinvolti nel 2021 sono il 71% in più rispetto al 2020

– Il 55% dei lavoratori sta pianificando di lasciare il proprio lavoro nei prossimi 12 mesi

(Fonti- DDI’s Global Leadership Forecast- Achievers’ Employee Engagement and retention report 2021)

Questi dati testimoniano che c’è una crisi della leadership globale iniziata già prima della pandemia. Questa ha semplicemente accentuato un fenomeno che era già presente. Se le preoccupazioni dei Ceo sono rivolte allo sviluppo della prossima generazione sembrerebbe ci siano delle difficoltà nella scelta e nella preparazione dei leader di quella attuale.  Leader deboli e poco preparati generano un effetto a catena nei loro team riducendo i tassi di coinvolgimento e aumentando il turnover. Una leadership più coinvolgente è necessaria in un mondo in cui 8 lavoratori su 10 risultano non coinvolti.

Great Resignation

great resignation

Secondo il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, durante i mesi di aprile, maggio e giugno 2021, un totale di 11,5 milioni di lavoratori hanno lasciato il lavoro . Studi recenti indicano che probabilmente non è finita. Un sondaggio condotto da Microsoft su oltre 30.000 lavoratori ha rilevato che il 41% sta pensando di lasciare; quel numero sale al 54% quando viene considerata solo la Gen-Z. Un recente sondaggio Gallup ha evidenziato che il 48% dei dipendenti è attivamente alla ricerca di nuove opportunità.

Questi sono dati allarmanti. Il turnover è costoso e per qualsiasi organizzazione perdere anche solo un terzo della propria forza lavoro sarebbe davvero devastante. L’impatto sulle piccole e medie imprese, dove non è raro trovare reparti composti da un’unità, sarà particolarmente significativo. Come con qualsiasi potenziale crisi, è meglio affrontare la situazione una volta che si capisce cosa la sta causando.

I temi che guidano la Great Resignation sono molteplici. Secondo un sondaggio condotto da LinkedIn, il 74% degli intervistati ha indicato che il tempo trascorso a casa – durante il lockdown o lavorando da remoto – durante la pandemia li ha indotti a ripensare alla loro attuale situazione lavorativa. Moltissimi – più della metà in diversi sondaggi – citano lo stress e il burnout nella loro posizione attuale come motivo per guardare altrove. Altri indicano l’insoddisfazione, e persino la paura, causata da azioni istintive di riduzione dei costi da parte del loro attuale datore di lavoro in risposta ai rallentamenti dell’attività legati al Covid-19 come motivo di fuga. Molti dipendenti trovano fondamentale l’iniquità nelle sospensioni delle promozioni, nella cultura del merito congelata e negli aumenti e licenziamenti indiscriminati.

Altri ancora hanno fatto valutazioni, sia con il cuore che con la testa, intorno alla vera economia di una famiglia a due redditi, determinando che i benefici non superano più i costi. Alcuni alla fine hanno fatto il salto e hanno iniziato un’attività da sogno. Molti hanno semplicemente avuto la sensazione di essere sottovalutati e inascoltati da manager tossici e narcisisti. Infine, un terzo ha espresso preoccupazione per la propria sicurezza personale nel dover tornare a una posizione in loco mentre la pandemia infuria ancora. Quindi, con tutto questo in corso, cosa può fare una tipica piccola impresa per arginare la marea, in particolare quando i concorrenti aziendali più grandi e meglio finanziati competono per lo stesso pool di talenti più piccolo?

La Great Resignation ha colto alla sprovvista così tanti datori di lavoro perché è contraria a tutto ciò che il management tradizionale pensa di sapere sui mercati del lavoro.

Si rende necessaria una nuova concezione del posto di lavoro e della relazione capo/risorsa. I leader di oggi hanno pochi strumenti per mitigare la mancanza di motivazione e le aziende cominciano ad accorgersene-

Le priorità

business priorities

Per approfondire la tematica basta analizzare quali siano state le priorità delle aziende negli ultimi due anni.  Ecco le prime otto priorità emerse (Fonte – Siyli EI report):

  1. Affrontare l’incertezza.
  2. Produttività
  3. Sviluppo della leadership
  4. Stress e Burnout
  5. Collaboration
  6. Resilienza
  7. Well-being
  8. Diversity ed Inclusion

Fattore interessante l’assenza del miglioramento delle capacità tecniche ma una lista di priorità cosiddette soft facenti tutte capo all’aspetto emozionale. Sembrerebbe confermata la tendenza che vede l’intelligenza emotiva come chiaro fattore vincente per successo sia individuale che collettivo.

I leader ad alto Quoziente Emotivo creano un clima in cui prosperano la condivisione delle informazioni, il feedback, la fiducia, la sana assunzione di rischi e l’apprendimento.

Per dare risposta alle istanze lanciate dal mondo del lavoro va costruita un nuovo modello di leader emotivo.

Il leader ad alto QE (quoziente emotivo)

leader ad alto QE

Come opera un leader di questo tipo? Su diversi fronti:

  1. Si prende cura di sé. Priorità alle sane abitudini (meditazione, attività fisica, relazioni con amici e mentori, prendere ispirazione da libri, video e citazioni etc.)
  2. Pratica l’Auto-compassione. Trattarsi con benevolenza come si farebbe con un amico anche di fronte a errori o fallimenti.
  3. Si prende cura degli altri. Nutre ispira e si mette al servizio del team
  4. Sviluppa il senso di unità. Affronta le difficoltà con la consapevolezza che insieme si riuscirà a sorpassarle.
  5. Rinnova e aggiorna. Sfrutta le difficoltà per trovare nuove soluzioni, per scoprire strade non battute, per apprendere nuove conoscenze e consapevolezze.
  6. Cerca il senso di scopo. Lavora per un fine che va oltre il raggiungimento degli obiettivi operativi. Sente di avere una missione più elevata e riesce a trasmetterla a chi ha attorno.

Come arrivare a formare leader di questo tipo?

Le metodologie tradizionali non sono più sufficienti. Molti degli insuccessi dell’attuale generazione di leader derivano da scarsa preparazione, accresciuta complessità e mancanza di strumenti efficaci di sviluppo.

Un manuale di leadershjp o un istruttore ottengono ben poco. La pratica e l’apprendimento sul campo la fanno da padrone. Quali i campi d’azione? Eccone alcuni:

  • Coinvolgere un team demotivato e spaventato dall’incertezza
  • Rivedere la mission e vision e dare un senso di scopo
  • Allineamento ai nuovi obiettivi
  • Prendere decisioni in situazioni d’incertezza e ambiguità
  • Capire le conseguenze del proprio agire
  • Generare ambienti dove l’apprendimento e la voglia di crescere siano priorità

Il trend che affronteremo nel futuro prossimo sarà proprio questo programmi di LEARNING BY DOING che mettano in risalto l’intelligenza emotiva e la generazione di coinvolgimento. Per una nuova generazione di leader di alto livello serve una nuova generazione di strumenti formativi.

Sei pronto per metterti in gioco? Noi abbiamo un programma di sviluppo che lavora proprio in questo modo, vieni a scoprirlo