Nelle scorse settimane abbiamo parlato delle Learning Organization, ovvero quelle organizzazioni caratterizzate da una cultura che promuove il continuo apprendimento, l’innovazione e l’adattamento alle sfide in evoluzione. Abbiamo visto quali sono i bias che possono ostacolare l’apprendimento dei leader e di conseguenza dell’organizzazione stessa.
Oggi, con questo video, vogliamo analizzare le sei caratteristiche delle Learning Organization.

Ecco le caratteristiche delle Learning Organization:

  1. Promuovono una cultura aperta
    Le organizzazioni che apprendono incoraggiano tutti a condividere informazioni, ad ammettere gli errori e ad esercitarsi nel dare e accettare critiche costruttive. Una volta individuato il problema, cercano di comprenderne la causa principale per poi risolverlo. Per raggiungere una tale cultura i muri devono essere rimossi, le informazioni devono essere condivise e i leader mostrare il loro lato umano.
  2. Progettano e implementano cicli di feedback
    Alcuni istituiscono sondaggi a 360 gradi, in cui le persone valutano se stesse, i propri colleghi e i propri capi. I dipendenti degli hotel a 5 stelle chiedono agli ospiti le loro opinioni. Le migliori scuole possono filmare gli insegnanti in modo che possano poi studiare da soli. Alcuni addirittura trasformano il feedback in un lavoro di squadra. Prima di ogni nuovo progetto, si riuniscono tutti per dare il via alle cose. Dopo il progetto, si incontrano di nuovo per condividere e riflettere su quanto accaduto.
  3. Promuovono la padronanza personale
    I dipendenti cercano di raggiungere la padronanza personale nei loro campi. Una volta diventati esperti, si sentono orgogliosi del loro lavoro, sono intrinsecamente motivati e possono creare cambiamenti positivi ovunque si trovino. Ad esempio, un addetto alle pulizie potrebbe avere un’idea su come risparmiare acqua e un contabile su come risparmiare sulle commissioni bancarie. Il compito del capo è connettere tutti gli esperti e dare indicazioni.
  4. Pianificano il fallimento rapido e intelligente.
    Quando costruiscono qualcosa di nuovo, non perdono tempo a fare ipotesi sulla carta. Invece, creano quello che viene chiamato Minimum Viable Product, un semplice prototipo con solo le funzioni principali. Questo viene poi presentato agli utenti il prima possibile per testare ciò che pensano. Poiché è imperfetto, le persone sono tendenzialmente più predisposte a dare opinioni e suggerimenti sinceri. L’obiettivo è quello di fallire velocemente, ma raccogliere informazioni intelligenti in modo da poter migliorare andando avanti.
  5. Replicano le best practices
    Apparentemente Picasso disse che “i buoni artisti prendono in prestito, i grandi artisti rubano”. Le organizzazioni che apprendono studiano gli altri, replicano le best practices e poi le implementano rapidamente. Esempi di queste strategie sono il quotidiano The Economists con George Orwell e i produttori della stampa con le lamette Gillette.
  6. Coltivano una visione comune
    Un’organizzazione che apprende prospera quando tutti i membri condividono una visione comune. In questo modo i dipendenti possono comprendere l’importanza del proprio ruolo, collegare i punti e sviluppare il pensiero sistemico. Quando gli obiettivi sono chiari, le normative possono essere ridotte e le persone possono creare i propri parametri di successo personali. Questo riduce la burocrazia, l’autorità e la corruzione.

Zig Ziglar, un noto venditore e scrittore, dice: “non dovresti preoccuparti di formare persone e magari poi perderle, ma dovresti farlo se non le formi e poi restano.”

La formazione non è mai un investimento perso, anche se i dipendenti scelgono di cercare opportunità altrove. Se invece, un’organizzazione trascura lo sviluppo delle competenze e delle conoscenze dei propri membri, potrebbe trovarsi con un team che non è adeguatamente preparato per affrontare le sfide emergenti e potrebbe limitare la produttività e l’efficacia complessiva.

La tua azienda è una Learning Organization? Vuoi migliorare una o più di queste caratteristiche?
I nostri percorsi  di sviluppo della leadership sono pensati per aiutare le aziende a continuare ad apprendere, migliorarsi e adattarsi ai rapidi cambiamenti dell’ambiente attraverso modalità partecipative, divertenti e coinvolgenti. Insomma, creano i presupposti per tramutarle in learning organization. Manda una mail a contatta@capoleader.com per avere più informazioni.

 

caratteristiche learning organization

 

Nellarticolo della scorsa settimana abbiamo parlato dei primi tre bias dell’apprendimento manageriale, ovvero quegli atteggiamenti limitanti che, se non presi in considerazione, possono impedire di creare learning organization efficaci. Abbiamo visto: «Io sono la mia posizione»,«Il nemico è là fuori», L’illusione del farsi carico di qualcosa. Oggi andiamo ad approfondire gli altri quattro bias.

4. L’eccesso di concentrazione sugli eventi

Quando affrontiamo problemi o conflitti, a volte ci concentriamo troppo sugli eventi immediati anziché cercare di capire le cause più profonde. Questo ci porta a reagire alle situazioni occupandoci di intervenire subito, tralasciando la visione a lungo termine del problema. Molti manager pensano che per ogni situazione ci sia una causa ovvia e diretta. Questo approccio, anche se talvolta corretto, può distrarre dal comprendere le strutture di cambiamento a lungo termine, che sono alla base delle vere minacce e opportunità aziendali. Concentrarsi solo sugli eventi immediati ci permette al massimo di prevedere ciò che accadrà, ma non ci consente di imparare in modo creativo. L’apprendimento creativo richiede una prospettiva a lungo termine.

Un esempio potrebbe essere un’azienda che affronta un calo delle vendite di un prodotto specifico. La reazione immediata è avviare una campagna promozionale per stimolare le vendite. Successivamente, viene scoperto che il calo era dovuto a un cambiamento nelle preferenze dei consumatori non considerato. La concentrazione solo sugli eventi (il calo delle vendite) senza indagare sulla causa profonda ha portato a misure correttive inefficaci. Se avessero esaminato la causa, avrebbero potuto adattare la loro offerta alle nuove tendenze di mercato.

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5. La metafora della rana bollita

Immaginate una rana che nuota tranquillamente in un pentolone pieno d’acqua fredda. Sotto la pentola, il fuoco viene acceso, e l’acqua inizia a riscaldarsi gradualmente. Progressivamente, diventa tiepida e la rana continua a nuotare, trovando la temperatura piuttosto gradevole. Col passare del tempo, la temperatura aumenta, e l’acqua diventa calda, un po’ più di quanto la rana gradisca. Pur sentendosi stanca, la rana non si spaventa e continua a nuotare. Quando l’acqua diventa davvero troppo calda e sgradevole, la rana, ormai indebolita, non ha la forza di reagire. Invece di cercare di uscire, sopporta la situazione senza fare nulla. Nel frattempo, la temperatura continua a salire fino al punto in cui la rana, semplicemente, muore bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente in acqua a 50°, avrebbe reagito immediatamente, dando un forte colpo di zampa e saltando fuori dal pentolone.
Peter Senge utilizza la metafora della “rana bollita” per spiegare come le aziende possano essere vulnerabili alle minacce lente e graduali se non sono in grado di adattarsi nel tempo. Così come l’apparato interno della rana è orientato a reagire a cambiamenti improvvisi nel suo ambiente, e non a quelli lenti e graduali, anche le aziende spesso reagiscono solo davanti a minacce evidenti, tralasciando i piccoli segnali che con il tempo potrebbero causare problemi più grandi.

Immaginate un’azienda con un sistema gestionale che poco alla volta non risulta più adatto ed efficace a gestire il business, anno dopo anno si accettano le piccole inefficienze del gestionale perchè si è intimiditi dall’impatto di un cambiamento radicale del sistema. Fino a quando, proprio come la rana bollita, si arriva all’emersione della completa inefficacia del sistema. In realtà, l’approccio più corretto è quello di prendere coraggio e, come per la rana saltare fuori dalla pentola, introducendo nel breve periodo un cambiamento strutturale che permetterà di interrompere un trend di declino di lungo periodo. Sopportare e ignorare le piccole inefficienze quotidiane non è mai una strategia efficace.

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6. L’illusione di apprendere dall’esperienza

L’apprendimento più potente deriva dall’esperienza diretta: prendiamo una decisione, la mettiamo in atto, vediamo le conseguenze, e in base all’esito consolidiamo l’apprendimento o modifichiamo qualcosa. Questo avviene fin dall’infanzia, se un bambino avvicina la mano al fuoco impara che il fuoco brucia. L’azione di mettere una mano sul fuoco ha una diretta conseguenza che è il dolore. In azienda però, non sempre possiamo vedere i risultati delle nostre azioni nel breve periodo. Molte decisioni critiche prese nelle organizzazioni hanno conseguenze a livello dell’intero sistema che si estendono su anni o decenni. Questo può portare i manager a non sperimentare nuove strategie per un’insicurezza riguardo gli effettivi risultati delle proprie azioni nel lungo termine, non avendo una diretta visibilità sull’esito, si installano in questo contesto convinzioni limitanti quali “questo approccio non funziona perchè non ne vedo subito gli effetti”. Ad esempio, un manager potrebbe giudicare alcune azioni come fallimenti, sia a livello personale che aziendale, perché non riesce a vedere il collegamento diretto tra le decisioni prese e i risultati ottenuti. Alcune categorie professionali, per stimolare il livello di fiducia sugli esiti delle proprie decisioni utilizzano dei simulatori per minimizzare i tempi di attesa tra decisioni, azioni e risultati. Per esempio i piloti di aereo provano manovre in situazioni molto particolari al simulatore di volo, proprio perchè questo da un’immediata evidenza degli esiti della manovra stessa, aiutandoli ad adeguare i modelli mentali che stanno alla base delle loro decisioni. Ecco perchè noi di CapoLeader utilizziamo le nostre simulazioni manageriali (Fligby, Friday Night) nella formazione aziendale sulla leadership.

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7. Il mito del management team

L’ultimo atteggiamento che limita l’apprendimento del manager e dell’azienda stessa è l’idea che chi ricopre ruoli manageriali debba avere la risposta a tutto, non è ammesso non sapere la risposta ed è quindi da evitare qualsiasi domanda su aspetti specifici o tecnici. Questa mentalità ha il potenziale di ostacolare completamente il percorso di apprendimento e comprensione, dando origine a ciò che è noto come “incompetenza qualificata“. Questo concetto si applica a un gruppo di individui molto abili nel limitare la propria capacità di apprendere. Spesso, nelle aziende, i gruppi cercano di ottenere più potere, evitando di affrontare situazioni che potrebbero rovinare la loro reputazione. Vogliono che tutti siano d’accordo con la stessa strategia per sembrare uniti. Per mantenere questa immagine, cercano di evitare i disaccordi; chi ha preoccupazioni serie di solito non le esterna pubblicamente. Le decisioni prese insieme finiscono spesso per essere compromessi vaghi o  rappresentano il punto di vista di una persona imposto al gruppo. Se c’è disaccordo, spesso viene espresso in modo che incolpi qualcuno, crei divisioni e non metta in evidenza le differenze di base nei presupposti e nell’esperienza, impedendo a tutto il gruppo di imparare dalla situazione. Aprire un dialogo costruttivo all’interno del team, noncuranti della difesa della propria immagine, ma in un’ottica di superamento degli schemi mentali limitanti, porta ad un allargamento alle diverse prospettive dei membri e mette in discussione correttamente lo status quo. Quando c’è qualcosa che non è perfettamente chiaro o è migliorabile, dobbiamo intervenire ponendo domande, aprendo discussioni e condividendo i nostri dubbi anche se ci sembra di mettere in repentaglio l’armonia del team.

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Essere consapevoli di questi sette bias manageriali limitanti, evidenziati da Peter Senge, è il primo passo per superarli. Per farlo sarà necessario allargare la nostra visione sull’intero sistema, ovvero sull’importanza delle interconnessioni aziendali, abbandonando la mentalità a silos. I nostri programmi di formazione aziendale sono pensati per aiutare i manager a superare questi atteggiamenti imparando, grazie alla simulazione e al gioco serio, a collaborare, comunicare e  trovare strategie innovative per migliorare lo sviluppo dell’azienda. In particolare, Friday Night at the ER è lo strumento più efficace per raggiungere questo obiettivo.

Ecco qui per voi un breve explainer di come funziona il nostro gioco:

Vuoi avere più informazioni? Manda una mail a contatta@capoleader.com

Nell’articolo della scorsa settimana abbiamo parlato delle Learning Organization, ovvero quelle organizzazioni che promuovono e facilitano l’apprendimento continuo tra i propri membri, adattandosi con flessibilità ai rapidi cambiamenti dell’ambiente. Oggi ci concentriamo sui 7 possibili bias dell’apprendimento manageriale, che possono causare resistenze, bloccando lo sviluppo delle aziende.

Peter Senge, nel suo libro La Quinta Disciplina, affronta un argomento molto importante, ossia i motivi che portano alla crisi dell’azienda. Molto spesso, prima di arrivare al fallimento, emergono segnali premonitori di problemi imminenti. Tuttavia, questi segnali spesso vengono trascurati. L’organizzazione nel suo complesso sembra incapace di riconoscere le minacce, comprendere le loro implicazioni o trovare alternative valide. Nel libro vengono affrontati i 7 bias dell’apprendimento manageriale, ovvero quegli atteggiamenti, comportamenti e schemi mentali che limitano l’individuo nella sfera professionale e di conseguenza l’organizzazione stessa. Riconoscere quali sono è il primo passo per poterli superare:

l. «Io sono la mia posizione»

Questo atteggiamento porta le persone ad identificare la propria identità con il proprio ruolo. Quando chiediamo a qualcuno che cosa fa per vivere, molto probabilmente ci risponderà elencando i compiti che svolge e non con lo scopo o la mission dell’organizzazione a cui appartiene. Questa tendenza comune può essere spiegata da vari fattori, uno dei quali è la sensazione di far parte di un “sistema” più grande su cui pensiamo di avere scarso o nessun controllo diretto. Immaginiamo noi stessi come ingranaggi di questa macchina, limitandoci a “fare il nostro lavoro”, cercando di destreggiarci tra le sfide quotidiane e le forze esterne che sembrano al di là della nostra influenza. La convinzione di avere poca o nessuna influenza sul “sistema” più ampio può portare a una visione ristretta delle nostre responsabilità, mantenendoci nei confini specifici del nostro ruolo e ostacolando la collaborazione con le altre persone.

Un chiaro esempio di questa mentalità è riportato nel libro: quando, all’inizio degli anni ottanta, una rilevante azienda siderurgica statunitense iniziò a chiudere i suoi impianti, propose un programma di formazione per preparare i dipendenti licenziati a nuove opportunità lavorative. Tuttavia, questa iniziativa formativa non si materializzò mai completamente: i lavoratori preferirono rimanere senza lavoro o dedicarsi a occupazioni occasionali. La situazione suscitò l’interesse di psicologi incaricati di indagare sul motivo di tale rifiuto, trovarono che i lavoratori siderurgici soffrivano di acute crisi di identità – «Come potrei fare qualcos’altro?» chiesero i lavoratori, «Io sono un tornitore.»

L’idea di dover abbandonare la propria identità consolidata per intraprendere una nuova strada lavorativa ha generato resistenza nei confronti del cambiamento proposto dall’azienda, anche se avrebbe potuto portare vantaggi e benefici da entrambe le parti. Il ruolo diventa una gabbia che impedisce di ampliare le nostre esperienze e limita le possibilità di crescita professionale.

7 bias dell'apprendimento manageriale

2. «Il nemico è là fuori»

Il secondo ostacolo è strettamente correlato con il primo. Ci riferiamo alla tendenza di trovare sempre un colpevole al di fuori noi a cui attribuire la causa dei nostri insuccessi o errori. Potrebbe essere il nostro capo, il collega, il management e così via. Questa tendenza ci porta a costruire delle barriere tra noi e gli altri membri dell’azienda. Gli altri sono il nemico e noi siamo le vittime. Quando ci concentriamo soltanto sulla nostra posizione, non vediamo in che modo le nostre azioni si estendono al di là dei limiti di quella posizione.

Peter Senge porta l’esempio di un’organizzazione in cui il marketing rimprovera la produzione: «Il motivo per cui non riusciamo a raggiungere gli obiettivi di vendita è che la nostra qualità non è competitiva». La produzione rimprovera la progettazione. La progettazione rimprovera il marketing: «Se soltanto la smettessero di smontare i nostri progetti e ci lasciassero progettare i prodotti che siamo in grado di fare, saremmo leader di settore». Cercare un colpevole senza fare una riflessione sulle interconnessioni tra le varie parti, può portare ad alimentare la mentalità a silos, dove ciascun reparto pensa solo al proprio orticello. Ritornando all’idea che “siamo la nostra posizione” e non abbiamo la responsabilità del successo o dell’insuccesso dell’organizzazione.

L’incapacità di mettersi in discussione impedisce l’innovazione, lo sguardo critico verso lo status quo e alimenta la cultura della lamentela.

 

3. L’illusione del farsi carico di qualcosa

Spesso il leader vive nella costante gestione dell’urgenza, nel prendersi in carico problemi e situazioni molto urgenti e importanti. In molti casi semplicemente per una questione di immagine, per farsi vedere pronto a gestire la situazione. Questo tipo di approccio si contrappone a quello di investire nel medio e lungo termine in soluzioni strutturali che impediscano il verificarsi di urgenze e problematiche spinose. Questo atteggiamento è legato al concetto di proattività, ovvero contribuire ad affrontare questioni complesse, generalmente prima che diventino davvero dei problemi, senza aspettare che siano altri a farlo. In particolare, essere proattivi viene frequentemente visto come un antidoto all’essere «reattivi». Quello che però spesso capita è legato al secondo ostacolo: una volta individuato il nemico, si parte alla carica in modo aggressivo per cercare di contrastarlo. Questo non è essere proattivi, si sta semplicemente reagendo. Secondo Senge, l’essere veramente proattivi deriva dal vedere come contribuiamo a risolvere i nostri problemi. È un prodotto del nostro modo di pensare, non della nostra condizione emotiva.
Per fare un esempio, immaginiamo un’azienda che abbia subito un calo delle vendite nei suoi prodotti. La direzione, preoccupata dalla situazione, decide di adottare un’approccio che sembra proattivo, cioè decide di lanciare una serie di sconti e promozioni al fine di stimolare immediatamente le vendite. Le promozioni e gli sconti vengono introdotti solo dopo che le vendite hanno già subito un notevole declino. In questo caso, l’azienda sta reagendo a una crisi già in corso anziché adottare una strategia proattiva volta a prevenire il calo delle vendite in anticipo. Un’azienda autenticamente proattiva si sforza di anticipare le sfide e di implementare cambiamenti preventivi, mentre un approccio reattivo risponde alle situazioni che si sono già verificate.

Abbiamo visto 3 dei 7 bias dell’apprendimento manageriale, i quali, se non presi in considerazione, possono impedire di creare learning organization efficaci.

La prossima settimana parleremo dell'”eccesso di concentrazione sugli eventi”, “La parabola della rana bollita”, “L’illusione di apprendere dall’esperienza” e “Il mito del management team”. Sei curioso di scoprirli? Non perderti il nostro prossimo articolo!

Nelle scorse settimane vi abbiamo anticipato che stavamo lavorando su una grossa novità! Finalmente ve la possiamo svelare!
Giovedì il Team di CapoLeader si è riunito per sperimentare in prima persona un nuovo interessantissimo progetto: Friday Night at the ER.

Che cos’è?

Friday night at the ER è un serious game che simula la gestione di un ospedale il venerdì notte, il momento della settimana in cui il numero di pazienti che si presentano alle emergenze è notevolmente più alto.
Il gioco si svolge in squadre da quattro persone, ogni squadra rappresenta un ospedale. L’obiettivo è quello di fornire un servizio di alta qualità a basso costo entro il tempo assegnato. Ogni ospedale dovrà cercare di gestire nel modo più efficace i possibile picchi di domande, le risorse limitate, i tempi ristretti, gli eventi imprevisti e le scelte decisionali complicate. Per ottenere buone performance è fondamentale una buona collaborazione tra i quattro reparti previsti: pronto soccorso, chirurgia, terapia intensiva e dimissioni.

Perchè Friday Night at the ER è efficace per le aziende?

Lo scenario dell’ospedale è una metafora. Infatti, l’esperienza di simulazione è progettata per assomigliare a qualsiasi organizzazione in cui le parti devono instaurare una collaborazione per raggiungere gli obiettivi del sistema. Per riuscirci è fondamentale sviluppare il pensiero sistemico, ovvero tener conto del fatto che ogni attività aziendale sia interdipendente e che qualsiasi cambiamento in un’area dell’organizzazione possa influenzare l’intero sistema.

Grazie a Friday Night at the ER è possibile:

  • insegnare alle persone a collaborare oltre i confini funzionali per raggiungere gli obiettivi del sistema,
  • migliorare la collaborazione tra le unità aziendali,
  • aumentare la consapevolezza degli ostacoli e dei fattori di successo nei processi aziendali
  • aiutare le persone a rompere la mentalità a silos…
  • … divertirsi!

friday night at er

Vuoi avere più informazioni su Friday Night at the ER e sul suo utilizzo? Manda una mail a contatta@capoleader.com

Un sistema è generalmente definito come una raccolta organizzata di parti o sottosistemi, altamente integrati, al fine di raggiungere un obiettivo generale.
Un esempio è il corpo umano. Il nostro corpo è un sistema che contiene undici sottosistemi, come quello scheletrico, muscolare e nervoso. Il principio presente dietro ad ogni sistema è che se anche solo una delle parti dovesse cambiare, l’intero sistema cambierebbe.
Da qui nasce il pensiero sistemico, un approccio integrato che permette di analizzare i problemi in modo completo, cercando di capire le dinamiche di interazione tra le varie componenti del sistema.

Ogni sistema è perfettamente disegnato per per ottenere i risultati che ottiene, ma come si ottengono questi risultati?
Per prima cosa dobbiamo conoscere e comprendere il nostro sistema e confrontarlo con gli altri sistemi. Poi, dobbiamo partire in piccolo, un passo alla volta.
Quando hanno chiesto ad un famoso scultore come riuscisse a creare delle statue di cavalli così belle, lui ha risposto che basta partire da un blocco di pietra e togliere tutto ciò che non sembra un cavallo. Si può fare lo stesso ragionamento con il proprio sistema. Si inizia imparando a conoscerlo e poi si toglie un po’ alla volta tutto ciò che non aiuta a raggiungere i risultati complessivi.

In questo video vengono spiegate, con interessanti esempi, le più importanti regole sul funzionamento dei sistemi:

  1. I problemi di oggi nascono dalle soluzioni di ieri
  2. Più spingete avanti più il sistema spinge indietro
  3. Le scorciatoie di solito non risolvono il problema
  4. Andare più veloce, rallenta

Cosa succede quando si decide di prendere una scorciatoia per risolvere un problema, senza pensare alle ripercussioni sulle parti interconnesse?
Un esempio è il caso Cat Drop. Negli anni ’50 del secolo scorso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità decise di spruzzare massicce dosi di DDT per debellare le zanzare, al fine di contenere una grave epidemia di malaria. Il DDT,  debellò le zanzare e quindi la malaria, ma produsse anche altri significativi cambiamenti che l’uomo non aveva valutato. Quasi tutte le popolazioni di insetti calarono decisamente, tranne una, i “bruchi mangia paglia”, che proliferarono indiscriminatamente non trovando più in natura altri competitori o predatori, morti per l’effetto del DDT. Questo causò un incontrollabile decadimento dei tetti delle case. Inoltre, il DDT provocò la scomparsa delle lucertole e di conseguenza, essendo il cibo dei gatti, la progressiva morte dei felini. Senza gatti si moltiplicarono anche i ratti, provocando due nuove malattie: il tifo e la peste. Per risolvere questa situazione, allora, la Royal Air Force inglese paracadutò una grande quantità di gatti al fine di mangiare i ratti, risolvendo almeno in parte il problema.

L’Operazione Cat Drop è la dimostrazione del fatto che ogni ecosistema resta in equilibrio grazie ai rapporti esistenti tra tutte le sue componenti. Intervenire sul problema in modo immediato, attraverso una scorciatoia, può generare l’alterazione del delicato equilibrio, generando una crisi del sistema. Questo principio è valido non solo per gli ecosistemi naturali, ma anche per le aziende. Molto spesso manager e capi cercano di risolvere i problemi mettendo in atto delle soluzioni provvisorie che non tengano conto delle parti interconnesse. Ogni decisione, però, ha un impatto su tutto il sistema e quindi su tutta l’organizzazione.
Il Team di Capoleader sta lavorando ad un’interessante strumento, pensato proprio per aiutare i leader a potenziare il proprio pensiero sistemico evitando di dover “paracadutare i gatti” nella propria azienda per ristabilire l’equilibrio.
Considerare la propria azienda come un insieme di componenti interconnesse e interdipendenti, che lavorano insieme per raggiungere uno scopo comune, permette ai leader di vedere il quadro più grande della situazione e le conseguenza delle proprie azioni, analizzando i problemi in modo efficace prima di agire.

 

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