Lo Smart Leadership Program è stato ideato in base alle richieste sempre più frequenti che CapoLeader ha ricevuto dal mondo manageriale. Gli ultimi due anni hanno costretto i manager a rivedere il modo di gestire i propri team, molti di loro si sono ritrovati spiazzati dalle mutate condizioni lavorative, gestire le persone a distanza, convivere con l’incertezza, bilanciare vita lavorativa con quella personale, percepire e assecondare i nuovi bisogni dei collaboratori, creare un network di risorse capaci di sostenere la figura del leader nella complessità del mutato contesto lavorativo. Queste sono diventate le nuove priorità della Smart Leadership.

La Teoria del Flow ci insegna che il bilanciamento tra abilità e sfide permette di trovare equilibrio e bilanciamento e di vivere il proprio ruolo con soddisfazione, coinvolgimento e alte prestazioni. In presenza di un deficit nelle abilità sopracitate riusciranno i leader a sostenere le sfide attuali e sperimentare lo stato di Flow?

Il percorso ambisce proprio a colmare questo gap e rendere più agevoli le sfide dei people leader. E’ prevista una modalità che accompagni i partecipanti nell’esplorazione delle nuove modalità di esercizio del proprio ruolo e li supporti nella riflessione sulle principali novità in atto nel sistema aziendale. Non si tratta di lezioni frontali perché i protagonisti sono proprio i discenti. Spazi di riflessione individuale si susseguono a momenti di condivisione delle proprie esperienza prima in piccoli gruppi poi insieme all’intera classe.

7 appuntamenti tematici su base bisettimanale con possibilità di mettere in pratica e sperimentare gli argomenti discussi in classe. Le principali tematiche trattate sono:

  • Il lavoro e le riunioni a distanza. Panoramica sulle nuove modalità di gestione del lavoro a distanza e utilizzo consapevole della tecnologia. Cosa cambia, cosa invece rimane invariato.
  • Nuovi approcci comunicativi. Dati i principi della comunicazione efficace tradizionale, va ripensato il modello comunicativo alla luce delle nuove regole di ingaggio.
  • Empatia ed ascolto attivo. In un contesto lavorativo dove stimoli e distrazioni sono in costante aumento, i people manager devono riuscire ad entrare in modalità ascolto sia a livello verbale che emotivo.
  • I nuovi bisogni lavorativi e l’equilibrio vita/lavoro. Il fenomeno della great resignation ci insegna che le persone hanno mutato le necessità e i fabbisogni in ambito lavorativo, partendo dalla piramide dei bisogni è necessario comprendere e aggiornare le priorità dei collaboratori.
  • I nuovi stili di leadership – La leadership gentile. Gli ultimi 3 anni ci hanno insegnato che il modello di leadership command & control non è più vincente nel contesto attuale. E’ necessario sviluppare un approccio più human centered e prendersi cura dei propri interlocutori.
  • Come coinvolgere ed ispirare oggi. Anche alla luce delle nuove generazione che sono entrate nel mondo lavorativo è necessario un cambio di paradigma per sviluppare engagement e ispirare i collaboratori. Quale storytelling è necessario?
  • La paura del giudizio e la cultura del lamento. I retaggi dei modelli tradizionali di management sono un ostacolo alla piena soddisfazione e alla produttività. Lo smart leader deve introdurre nuove strategie per eliminare questi due ostacoli alla piena realizzazione del potenziale umano.

 

Una viva esigenza del mondo lavorativo attuale è quella di costruire dei network di sostegno per i manager dove i vari membri possano contare sul supporto reciproco dei colleghi anche su situazioni meno tecniche ma più relative alla gestione del personale. Il percorso prevede l’introduzione dello strumento del peer coaching e fornisce un frame alla creazione del lavoro di squadra.

Smart Leadership Program

 

Vuoi introdurre lo Smart Leadership Program nella tua azienda? manda la tua richiesta a contatta@capoleader.com sarai ricontattato per una breve call introduttiva.

Il feedback in azienda è un importante strumento di crescita, ma il suo valore spesso non viene percepito.
Quando parliamo di feedback, durante i nostri percorsi formativi in azienda, capita con molta frequenza di ricevere risposte come queste:

“Non ricevo mai feedback”

“Riesco a dare feedback ai miei collaboratori, ma non al mio capo”

“Da noi non si usa, non siamo abituati”

“Mi dicono bravo, ma senza andare nel dettaglio”

Queste frasi indicano che probabilmente nell’organizzazione non è presente una buona cultura del feedback, oppure non è ancora stata sviluppata efficacemente.
La principale conseguenza è quella di considerare il feedback come:

  • negativo,
  • una critica,
  • qualcosa che rovinerà il rapporto con i colleghi,
  • qualcosa di difficile da gestire dal punto di vista emotivo.

 

In realtà non è niente di questo. Quando parliamo di feedback ci riferiamo ad uno strumento di crescita di grandissimo valore, utilizzato per fornire spunti utili al perfezionamento della performance.
Il feedback ci aiuta a capire cosa possiamo migliorare nelle nostre prestazioni, e come possiamo farlo.
Ovviamente deve essere dato in un setting adatto e seguendo delle indicazioni che lo rendano efficace.

Se pensiamo al contesto sportivo, possiamo capire quanto sia importante il feedback per un atleta.
Alla fine di una prestazione sarà fondamentale per lui ricevere diverse tipologie di feedback:

  1. Feedback dall’allenatore: per un atleta è importantissimo ricevere un commento da parte del suo preparatore dopo ogni performance. È ciò che gli permette di correggere i dettagli, migliorando movimenti e tecniche.
  2. Feedback dal proprio corpo: ascoltare come sta il proprio corpo serve per capire i propri limiti. Questo ci permette di capire cosa rinforzare in allenamento per evitare rischi o infortuni.
  3. Feedback dal pubblico: ricevere un feedback da parte dei sostenitori è utile per aumentare il senso di autoefficacia dell’atleta.
  4. Feedback dal punteggio: le prestazioni sportive sono spesso misurabili in termini numerici, per un atleta sarà essenziale conoscere i propri punteggi per poterli superare nelle competizioni successive.

Ogni atleta è interessato a ricevere questi feedback, poiché gli permetteranno di crescere e migliorare.
Così come nel contesto sportivo, anche in quello aziendale esistono diverse tipologie di feedback che possono aiutare le persone a capire se stanno percorrendo la giusta strada verso i loro obiettivi:

  1. Feedback da altre persone: un buon leader segue i propri collaboratori durante tutto il percorso individuando dei momenti da dedicare al confronto e alla restituzione di indicazioni utili per lo svolgimento dell’attività. Dare dei feedback immediati e specifici è un’ottima strategia che, però, non deve sfociare in micro-management.
  2. Feedback generato dal lavoro stesso: alcune attività hanno in sé le misure delle prestazioni (es: numero di unità vendute). Una quantificazione del lavoro svolto può dare dei criteri utili per valutare i propri sforzi.
  3. Feedback generato dai propri criteri personali: nel giudicare se un lavoro è ben fatto, un vero leader si basa più sulla propria percezione soggettiva che sui segnali esterni. Questa percezione istintiva deriva dall’esperienza e può essere trasmessa, con il tempo, alle proprie persone.

La buona notizia è che, se nella propria azienda non vengono dati feedback, possiamo dare inizio noi al cambiamento culturale che, con il tempo diventerà sistematico. Possiamo assumere il ruolo di promotori del cambiamento, chiedendo per primi il feedback se non ci viene dato, o dandolo con costanza ai propri collaboratori.

Spesso partiamo dal presupposto che se nell’azienda “si è sempre fatto così” vuol dire che probabilmente quella modalità d’azione sia la più corretta. Questo non è vero. Conoscere la situazione dell’azienda, la sua cultura, il suo clima e le sue tradizioni è fondamentale per poter capire che cosa migliorare.
Ognuno di noi è un attore e non uno spettatore passivo della vita aziendale.
Ognuno di noi può dare inizio ad un piccolo cambiamento che con il tempo modificherà la cultura aziendale.

Il feedback non è solo uno strumento di crescita, ma rappresenta uno dei presupposti essenziali per poter portare il Flow in azienda. Se ogni persona lavorasse nello stato di Flow, secondo il Prof.  Csíkszentmihályi, riuscirebbe a raggiungere le sue massime prestazioni lavorative, portando grandi vantaggi all’azienda in termini di qualità e quantità.
I percorsi di CapoLeader aiutano le persone a lavorare sugli elementi essenziali per raggiungere il Flow.

 

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Ci troviamo nel periodo delle Grandi Dimissioni, o Great Resignation, in cui il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Molte persone hanno deciso di lasciare il proprio posto di lavoro perché non rispecchia più i propri valori, non si sentono più motivati e di conseguenza non sono felici. Come facciamo a capire se le persone sono demotivate al lavoro?

Il ruolo degli HR è fondamentale in questi casi, perché si trovano nella posizione privilegiata di poter aiutare le persone a capire cosa manca e cosa modificare per ritrovare la motivazione e la soddisfazione persa con il tempo.

Quali sono le domande che ogni HR dovrebbe farsi per valutare la situazione e intercettare i sintomi che facciano capire che le persone sono demotivate?

  • La persona ha obiettivi chiari?

È fondamentale per ogni lavoratore avere chiara la direzione da prendere. Questo non vuol solo dire sapere quale sia la meta, ma anche quali strumenti utilizzare durante il percorso.

Una persona che non sente di aver chiaro il proprio obiettivo lavorativo risulterà demotivata e sarà più incline a diventare inefficace e poco produttiva.

  • Le sue abilità sono bilanciate al livello di sfida del compito?

Quando viene assegnato un compito è importante capire se le competenze della persona siano superiori, inferiori o in equilibrio con il livello di difficoltà. Se il lavoratore avrà competenze superiori al livello di sfida percepita probabilmente si annoierà e quindi non troverà soddisfazione in quello che fa. Al contrario, se la sfida è superiore alle sue abilità proverà uno stato di ansia e di stress. Quando c’è equilibrio tra abilità e difficoltà la persona entrerà in Flow, sarà quindi piacevolmente assorto in quello che sta facendo e la sua motivazione e soddisfazione lavorativa aumenteranno.

  • Riceve feedback adeguati?

Il feedback è uno strumento prezioso per capire se si sta andando nella giusta direzione. Per essere efficace deve essere dato subito dopo aver svolto un compito e deve essere molto specifico. Se le persone non ricevono un feedback rischiano di allontanarsi dalla meta desiderata senza accorgersene. È importante anche dare feedback di apprezzamento, per riconoscere l’impegno e celebrare un successo al fine di creare un buon clima lavorativo.

  • Ci sono troppe distrazioni?

Il principale ostacolo per entrare in Flow riguarda le distrazioni. Assicurarsi che le persone lavorino in ambienti tranquilli in cui non ci siano troppi rumori e continue interruzioni può facilitare la concentrazione. Se la mia attenzione viene continuamente dirottata verso elementi di disturbo come le mail e le notifiche del cellulare sarà difficile mantenere alta la concentrazione. Silenziare lo smartphone o programmare un orario per rispondere a tutte le mail può essere una semplice soluzione per rimanere focalizzati sul compito.

  • Lavora in multitasking?

Il multitasking non esiste! Se la persona svolge più compiti contemporaneamente vuole semplicemente dire che il suo cervello passerà continuamente da un compito all’altro a ritmi sostenuti, in questo modo la qualità del lavoro sarà inferiore perché non si riuscirà ad entrare nel flow, si impiegherà più tempo per terminare i compiti e la persona, alla fine, sarà molto più stanca e demotivata.

Se la persona non si identifica nel suo lavoro o se i suoi valori non sono gli stessi dell’azienda, difficilmente riuscirà ad essere motivata. Trovare un senso, uno scopo più grande al proprio lavoro è importante per entrare in Flow. Ognuno di noi lavora molto meglio quando sa che quello che sta facendo è utile e farà la differenza nel mondo. Il senso di significato che attribuiamo al nostro lavoro è uno dei presupposti per provare grande coinvolgimento, benessere e alta produttività nella propria attività.

 

Queste semplici domande possono aiutare, chi gestisce le persone dell’azienda, a capire se ci sono degli ostacoli al benessere lavorativo. Il passo successivo sarà quello costruire percorsi di sviluppo in grado di restituire motivazione e coinvolgimento ai lavoratori. Inserire nel piano formativo annuale iniziative legate al Flow e alla gamification aiuta i dipendenti a sviluppare un approccio basato sul connubio di apprendimento e divertimento.

Noi di CapoLeader proponiamo la soluzione che permette di approfondire gli interrogativi generati dalle precedenti domande e capire quando le persone sono demotivate. Ogni partecipante imparerà a lavorare su obiettivi chiari, bilanciamento abilità sfida, feedback, attenzione focalizzata e senso di significato. Come?

Attraverso un simulatore di leadership, Fligby, ogni persona diventa Direttore Generale di un’azienda e si allena a gestire un team di 7 persone sfiduciate e poco motivate, aiutandole a ritrovare la motivazione, la soddisfazione lavorativa e il Flow. Ogni persona può mettersi alla prova, testare le proprie emozioni, fare scelte diverse e vedere come reagiscono i propri collaboratori virtuali.

Il vantaggio di un simulatore di leadership è quello di poter sperimentare situazioni reali senza fare danni, perché ci troviamo in un contesto sicuro dove dall’errore si può imparare. I partecipanti potranno capire se le proprie persone sono demotivate e avranno strategie pronte per accompagnarle verso il pieno coinvolgimento e soddisfazione.

 

Vuoi avere qualche informazione in più su Fligby? Manda una mail a contatta@capoleader.com

L’obiettivo di un’azienda dovrebbe essere quello di far lavorare insieme un gruppo di persone per realizzare un obiettivo comune. Realizzare questo intento è possibile anche attraverso lo schiavismo e la corruzione ma trovare delle modalità più etiche e che permettano ai collaboratori di dare significato al lavoro permette di creare ambienti lavorativi dove le persone possano realizzarsi pienamente.

Non dovrebbe essere difficile spingere le persone a lavorare, il corpo umano è costruito proprio per questo scopo. Un individuo funziona al meglio quando è profondamente coinvolto in un compito e realizzare un lavoro ben fatto ci lascia una sensazione piacevole di benessere e soddisfazione. Dato questo assunto risulta interessante riflettere sul fatto che molti lavoratori considerano il proprio lavoro un sacrificio, un prezzo da pagare per vivere e aspettano ansiosamente i momenti in cui, terminato l’orario lavorativo possono dedicarsi a ciò che veramente amano. La risposta che viene spontanea è che seppure l’uomo sia progettato per lavorare, la maggior parte dei posti di lavoro non sono progettati per mettere i dipendenti nelle condizioni per esprimersi al meglio ma semplicemente per ottenere da loro il massimo risultato. Difficilmente un lavoratore riuscirà a dare significato al proprio lavoro se percepisce di essere considerato al pari di un macchinario o di uno strumento di produzione.

Che cos’è il senso di significato?

Normalmente si intende con questa locuzione la sensazione del lavoratore che quello che sta accadendo e quello che sta contribuendo a far accadere conti davvero, insomma l’idea che il proprio comportamento sia in grado di fare la differenza per sé stesso e per gli altri. Il senso di significato così descritto è presupposto per provare grande coinvolgimento, sensazione di benessere e alta produttività nella propria attività. Caratteristiche queste che si identificano nello stato di Flow come descritto dal prof. Csikszentmihalyi. Proprio partendo dagli elementi che caratterizzano il Flow si possono individuare 3 macro aree di attivatori della prestazione ottimale:

  • Chiarezza degli obiettivi. In questa area si riconoscono elementi come la chiarezza del ruolo, la comprensione e l’allineamento con gli obiettivi aziendali, l’accesso alle conoscenze e alle risorse necessarie per portare a termine il lavoro. Questi sono definibili come elementi razionali dell’esperienza di Flow e per semplificare l’analisi possiamo definirli legati al QI (quoziente intellettivo). Quando il QI di un ambiente lavorativo è basso l’energia dei lavoratori è indirizzata in modo errato e spesso va in conflitto con quella dei colleghi.
  • Feedback, comunicazione e relazioni sociali. Questa area fa riferimento alla qualità delle interazioni tra le persone coinvolte e troviamo elementi come la fiducia, il rispetto, il conflitto costruttivo, l’umorismo e la capacità di collaborare in modo efficace. Questi aspetti caratterizzano la sicurezza emozionale e sono riconducibili al famoso QE (quoziente emotivo come descritto da Goleman). Quando l’QE di un posto di lavoro è scarso, l’energia dei lavoratori si disperde sotto forma di approcci “ politici” al proprio ruolo o alla gestione del proprio Ego o all’evitamento passivo-aggressivo di tematiche “difficili”.
  • La sfida, il senso di controllo e l’automotivazione. Questa area si riferisce molto al livello di coinvolgimento e di autorealizzazione del personale. In pratica la sensazione di essere parte di qualcosa di importante e ricco di significato che va al di là del semplice ruolo. Questa terza categoria è descritta dal QM (quoziente di significato – in inglese meaning). Quando il QM dei un ambiente lavorativo è basso, i dipendenti mettono meno energia nel loro lavoro e lo vedono come “solo un lavoro” che dà loro poco più di uno stipendio.

 

Ci sono studi che evidenziano che ambienti con QI, QE e QM alti siano cinque volte più produttivi rispetto alla media. Proprio interventi sull’ultimo di questi indicatori sembrerebbero più sensibile a livello di prestazioni. Secondo lo stesso studio, i manager intervistati riconoscono il vero collo di bottiglia all’aumento della produttività: l’incapacità di migliorare il QM del loro ambiente lavorativo.

L’interrogativo viene spontaneo, com’è possibile aumentare il senso di significato percepito dai lavoratori?

In prima battuta la risposta a questa domanda sta nel saper innovare lo storytelling della propria azienda. Normalmente questo si occupa di raccontare quello che l’organizzazione può fare e migliorare al proprio interno (più produttività, più risultati, più efficienza). E’ necessaria un evoluzione netta e rivolgersi verso elementi esterni:

  • La società, ad esempio, creare una società migliore, costruire la comunità o gestire le risorse
  • Il cliente, ad esempio semplificando la vita e fornendo un servizio o un prodotto di qualità superiore
  • il team di lavoro, ad esempio un senso di appartenenza, un ambiente premuroso o lavorare insieme in modo efficace
  • il singolo lavoratore: esempi includono lo sviluppo personale, uno stipendio o un bonus più alto e un senso di responsabilizzazione

Per rendere più elevato il QM è necessario raccontare una storia che include questi 5 elementi perché proprio da un giusto mix di questi si riescono a toccare tutte le corde motivazionali delle persone.

Immaginiamo si voglia far partire un percorso di cambiamento culturale. La resistenza al cambiamento potrebbe proprio provenire da un basso QM, i dipendenti non riescono a percepire il significato del cambiamento. Le strategie più comuni per vincere questa resistenza fanno spesso riferimento a i vantaggi che trarrebbe l’azienda nel suo complesso (più utili, più volumi, immagine migliore). Per innalzare il QM sarebbe più utile prospettare uno scenario che tocchi anche l’impatto sociale  (si veda per esempio il caso Patagonia trattato qualche settimana fa), sui clienti (maggiore semplicità, meno errori più efficienza, prezzi più competitivi), sul team di lavoro (meno lavoro ridondante, più responsabilizzazione, più snellezza organizzativa), sugli individui (lavori più attraenti e sfidanti, possibilità di carriera, compensi più elevati) che questo cambiamento potrebbe generare.

I leader che vogliono migliorare il QM del proprio ambiente dovranno pertanto dimostrare alte capacità di storytelling e di creazione di una visione estesa dello scenario nel quale l’azienda stessa opera. In questo modo per i lavoratori sarà molto più semplice dare significato al lavoro.

Nei giorni scorsi si è fatto un gran parlare di Patagonia per la decisione, da parte del suo fondatore Yvon Chouinard, di cedere la proprietà dell’azienda a due nuove entità Patagonia Purpose Trust e Holdfast Collective. Ogni dollaro non reinvestito nell’azienda sarà distribuito sotto forma di dividendi per proteggere il pianeta. Il nostro unico azionista è il pianeta, questo è lo slogan che caratterizza l’operazione e descrive la nuova mission di Patagonia. Qualcuno potrebbe anche pensare ad un’operazione pubblicitaria se non conoscesse la storia di un’azienda che ha rivoluzionato il mondo del business come siamo abituati a concepirlo.

Il prof. Csikszentmihaly, nel suo libro Buon Business cita spesso Patagonia e il suo fondatore Yvon Chouinard come esempi da seguire per la capacità di generare una mission significativa che generi pieno coinvolgimento e permetta alle persone coinvolte nel business di sperimentare lo stato di Flow sul posto di lavoro. Come sappiamo più è presente il Flow in azienda più le persone sono coinvolte, felici e produttive.

Ogni passaggio della sua storia ormai cinquantennale ha significato un ulteriore gradino percorso in termini di responsabilità sociale e ambientale creando un forte engagement e benessere nei dipendenti. Basta dare una scorsa alla filosofia che ha animato Patagonia fin dai suoi albori.

La storia di Patagonia

Innanzitutto, Yvon Chouinard parte dalla sua prima fortissima passione. Nel lontano 1953, a soli 14 anni, si innamora dell’arrampicata su roccia. La gioventù di Chouinard passa nello Yosemite park dove la sua combricola affronta sfide sempre più avvincenti nello scalare pareti. Nel 1957 inizia la sua avventura come uomo d’affari, acquista da un rigattiere una fucina a carbone usata, un’incudine, alcune pinze e martelli e impara da autodidatta il mestiere del fabbro. Tutto parte dalla difficoltà di reperire negli Stati Uniti i chiodi da arrampicata di produzione europea. La notizia si diffonde e presto i suoi amici vogliono assolutamente avere i chiodi in acciaio al cromo-molibdeno di Chouinard. Il passo successivo è aprire un piccolo negozio nel cortile dei suoi genitori a Burbank. La maggior parte dei suoi strumenti però è portatile, quindi può caricare la sua auto e viaggiare lungo la costa della California da Big Sur a San Diego, dando spazio alla sua seconda passione, il surf. Abbinare lavoro e divertimento è una caratteristica che porterà nella sua avventura imprenditoriale.

Nel 1965, Yvon si mette in società con Tom Frost, suo instancabile compagno di cordata, e insieme fondano la Chouinard Equipment. Durante i nove anni in cui Frost e Chouinard sono soci, riprogettano e migliorano quasi tutti gli attrezzi da arrampicata per renderli più forti, più leggeri, più semplici e più funzionali. Il loro principio progettuale guida deriva da Antoine de Saint Exupéry, celebre aviatore francese: “In qualsiasi cosa, la perfezione si raggiunge non quando non c’è più niente da aggiungere, ma quando non vi è più niente da togliere, quando un corpo è stato spogliato fino alla sua nudità“.

Nel 1970 Chouinard Equipment è il più grande fornitore di ferramenta per arrampicata e alpinismo negli Stati Uniti. Ma è anche un criminale ambientale perché i suoi attrezzi danneggiano la roccia. Le stesse fragili crepe sono costrette a subire ripetuti martellamenti dei chiodi durante il posizionamento e la rimozione, e la deturpazione è grave. Chouinard e Frost decidono di ridurre al minimo il business dei chiodi. Questo è il primo grande passo ambientale che intraprendono nel corso degli anni.

Fortunatamente esiste un’alternativa: dadi di alluminio che possono essere incuneati a mano anziché martellati dentro e fuori le crepe. Vengono introdotti nel primo catalogo della Chouinard Equipment nel 1972. Nel catalogo viene incluso un saggio di 14 pagine del climber della Sierra Doug Robinson su come usare i dadi, e ciò apre la strada a futuri saggi sull’ambiente nei cataloghi di Patagonia. Nel giro di pochi mesi dalla spedizione del catalogo, il business dei chiodi si atrofizza: i dadi vengono venduti più velocemente, ancora prima di essere realizzati. Yvon non vuole contribuire in alcun modo a deturpare e mettere a rischio le sue amate montagne.

Successivamente abbandonò completamente la linea delle attrezzature e iniziò a produrre indumenti per scalatori, ma indumenti talmente resistenti da soddisfare un fabbro. E’ lo stesso Chouinard a confermarlo: “Abbiamo cucito il primo paio di pantaloni corti con una macchina per il cuoio. Ho utilizzato una canapa molto pesante. La donna che li cucì li mise in piedi sul tavolo e i pantaloni rimasero dritti. E quello fu l’inizio dei nostri Standup Short (gli short che tanno in piedi da soli). Eravamo dei fabbri che facevano indumenti.”

Il passaggio dalle attrezzature all’abbigliamento non cambiò l’obiettivo dell’azienda. “Secondo la nostra concezione, ogni prodotto che facciamo dev’essere il migliore del mondo. Non uno dei migliori: il migliore. Qualsiasi cosa facciamo, che sia un paio di pantaloni o una camicia, dev’essere così.” Questo è il segreto perché Patagonia è stata capace di attrarre talenti eccezionali nella propria organizzazione. Se un’impresa non aspira a essere la migliore della sua specie, attrarrà dipendenti poco abili e sarà presto dimenticata.

Come ogni imprenditore sa, esistono momenti molto difficili e si devono fronteggiare situazioni complicate per garantire la sopravvivenza a lungo termine dell’azienda. Questo è ancora più difficile se si vuole perseverare secondo valori etici elevati e ci si vuole prendere cura dell’ambiente. Chouinard si trova ad affrontare uno di questi momenti quando capisce che il cotone, per tutti un materiale naturale ed ecologico rappresenta in realtà una forte minaccia per l’ambiente (i risultati di un’analisi dicono che ci vogliono circa 9 litri di petrolio – la base per i pesticidi- per produrre una camicia di cotone).

 

Mentre attraversavo la Central Valley ho visto queste grandi pozzanghere dove scolava l’acqua dai campi di cotone. C’erano delle guardie armate di fucili per spaventare e tenere lontani gli uccelli da questo liquame. Vedi tutto questo, parli con gli agricoltori e vieni a sapere che il tasso di incidenza del cancro è dieci volte maggiore della media. Ho detto: Ah, è così! Non userò mai più cotone prodotto industrialmente. E’ come produrre mine anti uomo e un giorno svegliarsi e andare a vedere che cosa fanno. A questo punto puoi scegliere: andare avanti o fermarti. E io mi sono detto: Va bene smettiamo. Preferisco chiudere che continuare così.

Patagonia per inciso non chiuse, ma fece partire una campagna di rilancio del cotone prodotto biologicamente alla quale col tempo aderirono anche Nike Levi Strauss e altri colossi dell’abbigliamento.

I valori e l’integrità di Patagonia rendono i propri dipendenti orgogliosi e felici e fanno percepire un forte senso di scopo nella propria attività. L’ambiente lavorativo è costruito proprio alternando responsabilità verso l’ambiente e miglioramento della qualità dell’esperienza lavorativa.

 

il flow a lavoro

 

La cultura aziendale è viva e si esprime in diversi modi: “Sul lavoro siamo circondati da amici che possono vestirsi come vogliono, possono venire in ufficio anche a piedi nudi. La gente corre a fare surf quando c’è l’onda giusta, gioca a pallavolo sul campo di sabbia alle spalle del nostro stabilimento. L’azienda sponsorizza viaggi per sciare o per arrampicate e alpinismo. Dal 1984 non abbiamo più uffici privati, lavoriamo in un grande open-space per aiutarci nella comunicazione. Abbiamo una caffetteria che serve cibi sani, principalmente biologici. L’unica cosa che non cambia qui sono i fagioli e il riso, serviti ogni lunedì. Abbiamo anche aperto, su insistenza di Malinda Chouinard, un asilo nido aziendale – all’epoca uno dei soli 150 nel Paese (oggi ce ne sono migliaia, anche se non sono ancora sufficienti). La presenza di bambini che giocano nel cortile o che pranzano con i genitori nella caffetteria aiuta a mantenere l’atmosfera aziendale più familiare che aziendale. Nel 2015 siamo stati premiati dal Presidente Obama per il nostro impegno nei confronti delle famiglie dei nostri dipendenti.

Perchè Patagonia è diversa

L’ulteriore storia della cura verso l’impatto ambientale è testimoniata da diverse iniziative:

  • La prima, negli anni ‘70 per salvare l’habitat della trota iridea diventa uno spartiacque. Una delegazione di dipendenti di Patagonia blocca il piano di sviluppo del territorio per la costruzione e la cementificazione del letto del fiume Ventura che costeggiava lo stabilimento. Allo stesso tempo viene finanziato un piano per il recupero del fiume e della fauna.
  • Dal 1986 Vengono previste donazioni regolari per iniziative di recupero ambientale.
  • Nel 2002 nasce la campagna 1% for the planet. L’uno per cento del fatturato viene destinato a scopi ambientalistici.
  • Dal 1980 Patagonia fa uso di carta riciclata per i propri cataloghi
  • Nel 2007 viene prodotto il pile Synchilla® ottenuto attraverso il riciclo di bottiglie d’acqua di plastica.
  • Nel 1996 lo stabilimento a Reno viene progettato per consumare il 60% di energia in meno attraverso lucernari a tracciamento solare e sistemi di riscaldamento radiante.
  • Nel gennaio del 2012, Patagonia è la prima azienda californiana a diventare una società di beneficenza (B-Corp)
  • Il libro Let my people go surfing scritto da Yvon che racconta il suo approccio imprenditoriale diventa un bestseller.
  • Il programma Worn Wear lancia la prima iniziativa di riaparazione dell’abbigliamento usato attraverso l’utilizzo di materiali di recupero.
  • Il simbolo di cucitura Fair Trade Certified™ garantisce che parte dei soldi spesi per un prodotto vengono destinati direttamente ai produttori, restando quindi nella loro comunità. Fair Trade è il primo passo per pagare salari dignitosi a tutti coloro che fanno parte della rete di approvvigionamento.
  • Patagonia Action Works si occupa di connettere i clienti con le organizzazioni ambientale supportate.
  • Patagonia Provisions – l’azienda alimentare alle prime armi – ha fatto il primo passo verso la riduzione dell’impatto della CO2 quando ha lanciato la Long Root Ale, una birra prodotta con grano Kernza® che vanta un enorme potenziale per il sequestro del carbonio.
  • Alla fine del 2018 Yvon Chouinard e il CEO Rose Marcario hanno cambiato la dichiarazione della missione dell’azienda per riflettere questo cambiamento:

“Patagonia è in business per salvare il nostro pianeta“.

Chouinard

Lo stesso Yvon Chouinard spiega l’essenza del suo approccio: “Nessuno costruisce qualcosa del genere se ha intenzione di quotarsi in Borsa entro 3 anni, incassare e sparire. Perciò cerchiamo di agire come se questa impresa dovesse stare qui altri cento anni!”

 

Abbiamo molto da imparare da un approccio di questo tipo e anche noi nel nostro piccolo possiamo ambire a contribuire a qualcosa di più grande. Il Prof. Csikszentmihalyi, grande amico di Chouinard, definisce questo nostro importantissimo bisogno:

 

“Noi tutti abbiamo bisogno di sapere che le nostre vite non sono sprecate e che lasceremo qualche orma nella sabbia del tempo. Dobbiamo essere convinti che la nostra esistenza serve a uno scopo utile e che ha valore.” (Csikszentmihalyi, Buon Business)